Banderali: «Usciamo dall'emergenza con l'aiuto dei bambini»
Il poster della Società italiana di pediatria con un decalogo di comportamento per i genitori.
Salute

Banderali: «Usciamo dall'emergenza con l'aiuto dei bambini»

Il primario di Pediatria dell'ospedale San Paolo di Milano racconta la guerra al coronavirus vista dal fronte dei più piccoli, i dimenticati della pandemia. E lancia una sfida: «È venuto il momento del riscatto».

«I bambini le regole le ascoltano e le recepiscono, meglio di tanti adulti. E possono aiutarci». Il dottor Giuseppe Banderali, primario e direttore di Neonatologia e Pediatria dell'ospedale San Paolo di Milano lancia una sfida: coinvolgere l'infanzia nella Fase 2. Consigliere nazionale della Società italiana di pediatria e tra i fondatori dell'associazione «Nati per il futuro», il primario milanese si è battuto in prima linea contro la pandemia. E con la pacatezza e la cautela che lo contraddistinguono da sempre, racconta a Panorama la guerra al Covid vista dal fronte dei bambini.


Il dottor Giuseppe Banderali, primario di Pediatria al San Paolo di Milano.

Ci sono state parecchie polemiche in queste settimane sui bambini, definiti «i dimenticati del coronavirus». È vero?

«Allora, diciamo che se guardiamo ai diritti della Costituzione, un occhio particolare sull'infanzia dev'essere sempre tenuto. E onestamente tante volte, ma questa non è una critica a nessuno ma una realtà anche a livello internazionale, i bambini vengono valutati meno di come dovrebbero. I più piccoli meritano sempre più attenzione di quella che a tutti i livelli viene loro data. Io come medico in prima linea, avendo visto cos'è successo in questi tre mesi di emergenza, devo riconoscere che logicamente i primi interventi non potevano che essere di tutela sanitaria, di blocco, di distanziamento, di chiusura di tutto, anche delle scuole. Certamente, in questo modello di primo intervento, i bambini possono essere stati un pochino dimenticati».

Quindi un po' dimenticati lo sono stati...

«Diciamo che adesso è venuto il momento del riscatto nei confronti dei bambini. È venuto il momento di pensare anche a loro, di vedere come possa essere la scuola, di capire come tutelarli anche dal punto di vista psicologico».

A suo avviso, quindi, queste misure draconiane nei confronti dei bambini finora erano necessarie?

«Insomma, ci siamo trovati in un ciclone, in un uragano, era come se fossimo in guerra. Io penso che a tutti i livelli i provvedimenti iniziali siano stati quelli di una guerra. Ogni giorno i malati aumentavano, ricordiamoci che c'erano 1.000 morti al giorno e che il sistema sanitario, soprattutto al Nord, aveva rasentato il tutto completo. Di fronte a questi dati servivano misure di guerra. E in guerra purtroppo non puoi pensare proprio a tutto. Adesso secondo me, con la situazione più sotto controllo, occorre riflettere e dedicarsi alle classi più vulnerabili: gli anziani e i bambini. Sicuramente ora è essenziale fare programmi che tengano conto della loro salute psico-fisica».


Come si sono comportati i bambini durante l'emergenza Covid?

«I bambini si sono comportati bene perché hanno recepito le indicazioni, che fin dall'inizio sono state molto chiare. Oltretutto hanno vissuto un equilibrio fra fattori negativi - stare a casa e non poter giocare con gli amici - e fattori positivi - vedere allentate le pressioni della scuola e trascorrere più tempo a casa con i genitori. Quest'equilibrio ha fatto sì che, in un lasso di tempo per il momento limitato, i più piccoli abbiano recepito bene il messaggio. Anche perché sono molto adattabili e plastici nei loro comportamenti.».

In che misura il virus ha colpito i bambini?

«In una percentuale abbastanza bassa rispetto agli adulti. I dati indicano una percentuale di casi fra gli zero e nove anni dell'0,8% rispetto al totale dei pazienti Covid: in numeri abbiamo avuto in Italia abbiamo 1774 casi su un totale di oltre 222.000. E nell'età da 10 a 19 anni abbiamo avuto altri 3.148 casi, pari all'1,4%. In totale, soltanto il 2,2% dei pazienti totali con coronavirus era in età compresa fra 0 e 19 anni».

Come mai?

«Qui bisogna fare delle premesse. Intanto, tutto quello che diciamo, anche le considerazioni sulla buona risposta all'emergenza, non è basato su valutazioni scientifiche di evidenze. Ricordiamoci che la malattia è comparsa sulla nostra scena tre mesi fa. Tutto il vissuto della società del Covid-19 è ancora da scrivere, perché pur essendo i bambini adattabili e plastici, in gioco entra sempre anche la famiglia. Se i genitori sono rimasti disoccupati, sono depressi o hanno problemi economici, i bambini ne risentono. Per rispondere alla domanda, diciamo che anche qui non c'è una mappatura globale. Perché si è andati avanti nel processo diagnostico e terapeutico solo con i pazienti che hanno avuto dei sintomi».


Certo, gli asintomatici non sono inclusi.

«E qui devo fare un'altra premessa. Anche noi pediatri abbiamo una precauzione massima nel dire che cosa succederà. Il Covid-19 è un virus nuovo, che non conosciamo, che non è ancora sparito, come si vede dai dati internazionali, per cui non possiamo prevedere come sarà il suo comportamento. Quindi tutto quello che diciamo non è una verità assoluta, ma si basa su dati ancora parziali. Quindi, tornando al fatto che gran parte della popolazione sottoposta a screening era composta da casi o sintomatici o paucisintomatici (con pochi sintomi, ndr) oppure da parenti o ancora da operatori sanitari, si trattava di classi in cui i bambini non erano compresi. Non sappiamo quindi se la positività dei bambini sia effettivamente così bassa o se ci sia una percentuale di positivi più alta. Quello che possiamo invece dire, come fotografia mondiale, è che i bambini per il momento percentualmente non sono stati colpiti come gli adulti, ma soprattutto come gli anziani».

Il motivo?

«Anche qui non abbiamo verità, non abbiamo risposte sicure. Abbiamo un'evoluzione dinamica in fase di studio. Ogni giorno sul mondo coronavirus escono tantissimi lavori scientifici. Ma anche qui il tempo è fondamentale, per cui riflessioni o valutazioni di un mese, due o tre non possono essere assunte come risposte generali, come certezze assolute. Si fanno tante ipotesi. C'è chi ritiene che il bambino abbia un sistema immunitario più plastico dell'adulto. Altri pensano che, a livello di reattività alle forme virali, il bambino avrebbe un sistema più allenato. Un'ipotesi più complessa riguarda i recettori di alcuni enzimi, che potrebbero essere più o meno sviluppati nei bambini. Secondo altri ancora, i bambini, essendo stati i primi a essere tenuti a casa da scuola, avrebbero avuto meno contatto con il virus. Per cui direi che non abbiamo certezze. Certamente i dati in nostro possesso ci dicono che non solo i bambini si ammalano meno, ma che la malattia mostra i segni peggiori nella popolazione adulta, a partire dai 60 ma soprattutto dai 70 anni. Abbiamo una letalità del 10% fra i 60 e i 69 anni e del 25% dai 70 ai 79 anni.


Tornando ai bambini, da tre mesi sono chiusi in casa. E, prima che ricominci la scuola, avranno di fronte altri tre mesi abbondanti in cui faranno poco movimento e saranno molto esposti agli schermi digitali. Che rischi corrreranno?

«Difficile rispondere in maniera precisa perché sono misure messe in atto da pochi mesi e gli eventuali effetti si vedranno quando si evidenzieranno. Io penso che al momento occorra creare una grande rete con la famiglia, con la scuola e con tutte le istituzioni perché sicuramente qualche cambiamento rispetto a prima bisognerà mantenerlo. Tornare a una realtà pre-Covid in tempi veloci mi pare difficile. Certo è che ci vogliono strategie, che possono essere messe in attto anche dalla famiglia, ma sempre con l'aiuto della scuola e delle istituzioni, per ricostruire un modo di vita, a partire dall'attività fisica. Noi con la Società italiana di pediatria abbiamo elaborato vari progetti, fra cui per esempio un decalogo di comportamento (vedi immagini in questo articolo). Adesso bisogna mantenere l'allerta ma occorre anche far capire che dobbiamo uscirne tutti insieme, evitando al massimo le polemiche».

Ma un bambino che sta esposto sei, sette ore al giorno a più schermi elettronici a che rischi va incontro?

«Io al momento non ho elementi esatti per gridare all'allarme. Certo da questo punto di vista è importante che la scuola contempli anche momenti di pausa. Va bene utilizzare i sistemi telematici, ma bisogna fare in modo che tali sistemi non sostituiscano in pieno le altre attività. Bisogna trovare un equilibrio».

L'altro problema è la sedentarietà. Che pericoli corrono i bambini che non si muovono?

«Questo è un problema molto importante, legato al sovrappeso e all'obesità, che in Italia peraltro è comparso molto prima dell'emergenza coronavirus. E con una sedentarietà ancora acuita potrebbe peggiorare. Bisogna entrare nell'ottica delle famiglie e della scuola per incentivare il movimento. Quando ero bambino io, si giocava in cortile e si andava a scuola sempre a piedi. Ora si è capito che bisogna recuperare l'attività fisica quotidiana: fare le scale, andare a piedi, usare la bicicletta... Perché le due ore a scuola di attività fisica istituzionale non bastano».


E che cosa suggerisce di fare?

«Tornare al movimento in famiglia: il sabato e la domenica la cosa più bella è andare a fare una passeggiata o un giro in bicicletta. Visto il momento, spero che i nostri sindaci e le nostre istituzioni puntino ad esempio a migliorare le piste ciclabili, che permetterebbero sia il distanziamento sia l'attività fisica senza eccessivi investimenti. È arrivata l'ora di fare un po' di rivoluzioni. È venuto il momento di cambiare, di dare un'accelerata. Se tutti i bambini cominciassero ad andare a scuola a piedi o in bicicletta e a fare le scale, le differenze si vedrebbero. Lo vedo nel mio piccolo: io non sto praticando attività fisica, ma ieri ho fatto nove chilometri, fra le scale al San Paolo e il percorso avanti e indietro da casa. Alla fine della giornata ho fatto quasi 13 mila passi, pur essendo stato otto ore seduto davanti al computer».

Ma che rischi corre un bambino obeso?

«L'obesità all'età di sei anni dà un'aspettativa di vita inferiore di circa sei anni rispetto a chi non è sovrappeso e provoca un'insorgenza del diabete molto precoce. Le malattie cronico-degenerative, come obesità, ipertensione e diabete, tanto più compaiono precocemente tanto più danni fanno. La sedentarietà, che sicuramente è uno dei fattori che predispongono al sovrappeso e all'obesità, rischia di provocare tutta una serie di eventi negativi».


E stare troppo chiusi in casa può comportare rischi per il sistema immunitario?

«Questa è una domanda molto bella perché in effetti noi sappiamo che la vitamina D viene attivata dai raggi ultravioletti. E se il sole manca, la vitamina D scarseggia. Sicuramente stare chiusi in casa non aiuta il sistema immunitario. E poi c'è tutto l'aspetto psicologico perché il sistema immunitario è collegato all'ambiente. Una psiche che negli ultimi tre mesi è stata bastonata ha sicuramente creato un danno al sistema immunitario, che ora ha bisogno di riprendersi. Per questo bisogna puntare a uscire di casa, ma il messaggio da dare a tutti è di uscire con intelligenza, con la testa, distanziati, usando le mascherine... Se non lo facciamo, dobbiamo tornare indietro. E questo sarebbe un danno irreparabile».

Il gruppo di lavoro «Benevento città dei bambini» suggerisce di cogliere quest'occasione per aprire la scuola al territorio, spingendo gli insegnanti a portare gli alunni in cortile, al parco, nei giardini. Che cosa ne pensa?

«Sono assolutamente d'accordo. Secondo me bisogna far rivivere la città anche ai bambini. E qui le istituzioni ci possono aiutare: per cui spazio a parchi, zone protette, isole pedonali, piste ciclabili, aree giochi... Per esempio noi al San Paolo, con l'aiuto di alcuni sponsor, stiamo riorganizzando una grande area verde davanti all'ospedale, proprio per creare zone in cui curare i bambini all'aperto».

Anche quelli ricoverati?

«Sì, sì. Bambini con problematiche grosse, con malattie rare... Sicuramente pensare ad attività all'aperto è una strada vincente. Io sarei anche per fare scuola all'aperto. Vorrei far capire alle nostre mamme che i bambini si ammalano di più chiusi a scuola o in casa. Il gioco all'aperto è più sano».


C'è addirittura il progetto Scuola nel bosco...

«In una città come Milano certe cose non sono possibili, ma pensarci è fondamentale».

Tanti bambini non vogliono più uscire di casa. Che cosa si può fare per superare questo blocco?

«Anche questa è una bella domanda. In effetti questo fa parte di quel disagio prodotto dagli interventi di primo livello che hanno dovuto puntare a comunicare che eravamo in guerra. E questo lo hanno recepito anche i bambini. Adesso bisogna metabolizzare questo concetto, far capire loro che il coronavirus si può vincere, che la guerra finisce con l'aiuto di tutti e che il loro sostegno è prezioso. Secondo me, i bambini, che sono di metodo molto preciso, se sono supportati da genitori e istituzioni con indicazioni chiare, possono essere attori preziosi di un cambiamento positivo della nostra società».

In che senso?

«I piccoli rispettano le regole molto spesso più degli adulti, anche perché sono abituati a farlo, a scuola e in casa: tanti genitori mi dicono che i loro figli, se li vedono senza mascherina, li sgridano. L'infanzia va rispettata, tutelata ma anche coinvolta: si può chiederle aiuto affinché queste indicazioni vengano rispettate. I bambini hanno bisogno di regole chiare e di un minimo di approccio sereno della famiglia, ma se si riesce a dar loro un po' di positività, un po' di serenità, un po' di tutela e norme chiare, con il loro comportamento schematico possono darci una mano a uscire dall'emergenza. Il messaggio da lanciare ai più piccoli è che il problema lo risolviamo tutti assieme. E che grazie a loro possiamo uscirne prima».

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Elisabetta Burba