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La guerra al terrorismo parte dalla scuola. È così in tutta Europa, non in Italia

A Bergamo un convegno con esperti di antiterrorismo e mondo dell'istruzione

I governi europei colpiti da attentati terroristici di matrice islamica hanno attuato piani di osservazione, prevenzione e deradicalizzazione che partono dagli alunni delle elementari. In Italia non esiste alcun progetto e la presidente di Invalsi, l’istituto che monitora e forma i docenti, valutando l’apprendimento degli studenti, preferisce «tutelare privacy e diversità» e rispettare la scelta di famiglie che impongono alle figlie di nove anni di non frequentare i compagni maschi.
In un convegno all’università di Bergamo gli esperti antiterrorismo delle polizie europee e dell’FBi spiegano perché, invece, è necessario intervenire con prospettive di lungo respiro, soprattutto negli istituti dove la multiculturalità e la presenza di bambini di origine straniera è più significativa.
 
C’erano i maggiori esperti antiterrorismo europei e americani il 10 maggio all’università di Bergamo. Invitati dal professor Michele Brunelli, direttore del master in “prevenzione e contrasto alla radicalizzazione, al terrorismo e per le politiche di integrazione e sicurezza internazionale” e introdotti dal comandante provinciale dei Carabinieri, Colonnello Paolo Storoni, già a capo del Ros di Milano e co-ideatore del master. Investigatori operativi ma anche analisti costretti ad affrontare e rivedere l’approccio della guerra alla jihad dopo le stragi che hanno colpito i rispettivi paesi, dagli Stati Uniti, alla Francia, alla Spagna e all’Inghilterra. I loro governi hanno da tempo compreso che le vecchie impostazioni investigative hanno fallito. Come testimoniano le centinaia di vittime degli attentati di Madrid del marzo 2004 (192 morti), di Charlie Hebdo e Bataclan a Parigi nel 2014 e 2016 (102 morti) e Londra, dal 2005 (52 vittime) al 2017. Abbandonata la tesi che i centri di proselitismo jihadista potessero nascondersi nei luoghi di preghiera (tutti gli attentatori avevano un bassissimo livello di indottrinamento religioso e non frequentavano le moschee) e constatato che i lupi solitari erano cresciuti, quando non addirittura nati, nei Paesi che hanno voluto colpire, le strategie di prevenzione si sono concentrate sulle scuole, sulle associazioni sportive e in generale sui luoghi di aggregazione giovanile. Per tentare di intercettare e correggere atteggiamenti di auto-indottrinamento propedeutici alla radicalizzazione. In Inghilterra e in Francia i rispettivi governi hanno varato norme e regolamenti che formano e prevedono figure sentinella per esempio negli istituti scolastici. «Un disegno di un bambino o la confidenza su comportamenti familiari che rimandano all’estremismo islamico – ha spiegato il colonnello Storoni, fra i massimi esperti della materia – possono essere campanelli d’allarme che non possiamo permetterci di trascurare. Un buon insegnante può essere un buon investigatore. Più volte ho incontrato il Provveditore agli studi di Bergamo per sensibilizzarlo sul tema, auspicando un’interazione formativa con gli istituti scolastici, soprattutto nelle classi dove più alta è la componente di bambini stranieri, ma il percorso è ancora lungo e affidato alla sensibilità del singolo insegnante». Gli fa eco Demien Halat, ufficiale di collegamento della polizia nazionale francese in Italia: «Sappiamo che dalla Siria stanno tornando in Francia cento bambini figli di combattenti francesi che hanno combattuto come foreign fighters». L'investigatore francese li ha definiti vittime, ma si chiede: «Tra qualche anno dovremo considerarli una minaccia?». 
Gli esperti stranieri hanno lodato il programma scolastico italiano che inserisce lezioni, forum e approfondimenti, anche con personale delle forze dell’ordine, contro il bullismo o la droga, ma si chiedono perché non li prevediamo anche per il terrorismo di matrice islamica.
Panorama ha ascoltato in proposito Anna Maria Aiello, presidente di Invalsi. Dal suo istituto dipende l’offerta formativa rivolta ai nostri bambini. Che invece sostiene che «Le appartenenze a diverse culture debbano essere sostenute e non negate». E sull’ipotesi di formare e responsabilizzare i docenti all’osservazione di fenomeni di estremismo islamico dice: «Vedo più i rischi che i vantaggi, perché poi si vede solo quello che si vuole vedere. Non possiamo pensare che la scuola fronteggi queste problematiche, la scuola deve dare il senso del confronto, negoziare le differenze. Ci sono bambine musulmane che in quinta elementare smettono di giocare con i maschi; sono situazioni che la scuola deve riconoscere come tali». All’obiezione che questa è già una forma di violenza sui minori, la presidente di Invalsi risponde: «Noi dobbiamo sostenere la doppia appartenenza culturale. Io, da donna, sarei contraria, però se la scuola rifiuta questa cosa, a casa il conflitto si esaspera. Questi bambini vivono in occidente ma hanno tradizioni diverse. Se non riusciamo a conciliare questi due aspetti si creano degli ibridi e alimentiamo disagio. Inoltre, potremmo pure formare gli insegnanti e chiedergli di prestare attenzione a certi fenomeni, ma sempre tenendo ben presente il diritto alla riservatezza». Insomma, guai a toccare le diversità, anche se queste possono nascondere, quindi svelare, progetti di attentati o più semplicemente reati in ambito domestico, come la violenza sulla donna o sui minori.
Una risposta che evidentemente si aspettava il colonnello Storoni, quando al convegno aveva anticipato: «La maggior parte del corpo docente italiano non è sensibile al problema, occorre fare un salto di qualità. Non si tratta di fare lo spione, ma di responsabilizzare chi lavora nella scuola proprio per proteggere i minori che talvolta subiscono violenze, non solo psicologiche, nelle proprie famiglie. Un buon punto di partenza potrebbe essere lo studio del modello francese e inglese sviluppato dopo gli attentati. Noi abbiamo il dovere di difendere questi bambini dal rischio dell’estremismo islamico e della radicalizzazione. E proteggendo loro proteggeremo il Paese».

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Giorgio Sturlese Tosi

Giornalista. Fiorentino trapiantato a Milano, studi in Giurisprudenza, ex  poliziotto, ex pugile dilettante. Ho collaborato con varie testate (Panorama,  Mediaset, L'Espresso, QN) e scritto due libri per la Rizzoli ("Una vita da  infiltrato" e "In difesa della giustizia", con Piero Luigi Vigna). Nel 2006 mi  hanno assegnato il Premio cronista dell'anno.

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