Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese
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Mal di Francia

Disinteresse per le periferie, servizi scadenti, stato sociale in crisi. I Gilet Gialli sono solo uno dei mille problemi di Macron

"Noi proviamo un sentimento di abbandono e ci accorgiamo tutti i giorni che la priorità va solo alle aree urbane. I nostri villaggi si svuotano. La situazione è grave" dice Christian Venries, sindaco di Saint-Cirgues, un comune francese di 351 anime e altrettanti corpi dai nervi sempre più tesi. Il sindaco si è rivolto direttamente al presidente Emmanuel Macron, che il 18 gennaio è andato a Souillac, nella Francia sud-occidentale, per dialogare in diretta tv con i rappresentanti di 600 comuni dell’Occitania. Uno show nella speranza di dimostrare che l’Eliseo non si è dimenticato della parte meno visibile del Paese. Ce n’era bisogno.

Dal 17 novembre la "Francia profonda" è sul sentiero di guerra attraverso il movimento dei Gilet gialli. Ecco Emmanuel Macron, 41 anni appena compiuti, ascoltare (con qualche smorfia) le rimostranze di sindaci pronti a rinfacciargli soprattutto la grande delusione per la crisi del vecchio modello sociale. Il welfare alla francese va avanti ancora, ma ha una gomma bucata.

Jérôme Blasquez, sindaco di Les Pujols (790 abitanti nel dipartimento dell’Ariège, al confine con i Pirenei) va giù duro: «I nostri concittadini percepiscono una sensazione di autentica ingiustizia sociale». La crisi non è fatta solo di grandi numeri sulla sanità e le pensioni, ma viene da una nuova ricetta del «pollo di Trilussa» in versione nouvelle cuisine. Al vecchio squilibrio tra chi ha più e chi meno (chi mangia un pollo intero e chi si accontenta di poco, con le statistiche pronte a dire che c’è mezzo pollo a testa), si aggiunge la dimensione sempre più grave della «frattura territoriale». Un muro tra la Francia dinamica e quella che non sa come cavarsela. Da un lato le aree urbane «mondializzate», che riescono ad approfittare dell’apertura dei mercati, e dall’altro le campagne, che si sentono tagliate fuori. Nella Francia di oggi, essere poveri in città non è come esserlo in campagna.

Un sistema per far germogliare le campagne ci sarebbe e si chiama internet. Ma anche qui esistono due velocità. Secondo i sindaci dell’Occitania, l’accesso al web è un modo per dire se la Francia può davvero parlare di Egalité. Perché oggi non tutti sono uguali. Sul terreno delle nuove tecnologie della comunicazione si stanno giocando le sfide della coesione territoriale e dello stato sociale. La signora Agnès Simon Picquet, sindaco di Les Junies, 267 abitanti nel Lot, Massiccio centrale, dice: « Non ne possiamo più dei ritardi e degli scompensi di internet». Lo slogan «basta con i ritardi nella copertura internet del nostro territorio» è diventato la nuova frontiera della sfida sociale dei villaggi di campagna. Che sono tantissimi perché la Francia (molto più vasta dell’Italia) ha il record europeo in materia. Conta infatti 34.970 comuni contro i 7.926 dell’Italia.

Con un accesso «normale» a internet si potrebbe lavorare stando in campagna, dove oggi il problema numero uno è proprio l’occupazione. «Le nostre metropoli sono aspirapolvere che si portano via i posti di lavoro» dice Gilles Liebus, sindaco di Meyronne (283 abitanti). Con la crisi dei mestieri legati all’agricoltura e all’allevamento, diminuiscono gli abitanti. Di conseguenza se ne vanno la farmacia, l’ambulatorio, la gendarmeria, gli uffici comunali. Il municipio diventa una conchiglia vuota. «Per ottenere un documento dobbiamo fare decine di chilometri in auto, ma l’auto è penalizzata dalle spese in continua crescita e dalla riduzione dei limiti di velocità» dice Christian Venries.

L’auto non è un lusso, ma uno strumento di sopravvivenza, anche perché nel frattempo i trasporti pubblici perdono d’efficacia. Le linee ferroviarie vengono chiuse e anche i bus non sono all’altezza dei bisogni della gente. L’auto è la ciambella di salvataggio, ma l’aumento dei prezzi (quelli dei carburanti e anche quelli per i controlli periodici delle vetture, inaspriti per volontà di Macron) innescano la rabbia dell’«altra Francia»; quella che si sente emarginata. La protesta dei Gilets gialli è figlia dall’aumento dei prezzi dei carburanti e dalla riduzione (decisa l’anno scorso) dei limiti di velocità, da 90 a 80 chilometri orari, sulle strade provinciali. Per farla applicare, il ministero dell’Interno ha moltiplicato i radar. Così la collera ha trovato un nemico su cui sfogarsi. I radar stradali sono attaccati come i soldati di un esercito invasore e messi sistematicamente fuori uso da persone che si prendono per Robin Hood.

Le scuole sono le ultime a partire dai villaggi, ma adesso cominciano ad andarsene pure loro. «Nel mio dipartimento le scuole chiudono una dopo l’altra», dice Jean-Louis Grimal, sindaco di Curan, 308 abitanti nell’Aveyron, nel sud del Paese. La signora Christiane Marfin è sindaco di Saint-Chély-d’Aubrac, 540 abitanti sempre nell’Aveyron, e si commuove nel dire a Macron: «Noi rischiamo di perdere la scuola e la perdita della scuola sarebbe la fine del nostro villaggio». Nel passato della Francia, la scuola è stata molto più di una macchina per trasmettere il sapere. Insieme al lavoro dei padri, la scuola dei figli è stata la macchina fondamentale dell’integrazione e dunque del successo del modello sociale di una società largamente basata sull’arrivo dei migranti. Altri tempi. «È stata la scuola a consentirci di integrare in un secolo milioni e milioni di immigrati, convincendo bambini di ogni origine che erano tutti pronipoti di Vercingetorige!», diceva un esponente gollista come Charles Pasqua, già ministro degli Interni.

Alle elementari, integrare contava ancor più di insegnare a far di conto. Adesso l’immigrazione si indirizza verso alcune aree delle periferie urbane (le cosiddette «cités de banlieue»), in cui il lavoro degli insegnanti è spesso una sfida quotidiana (e quotidianamente persa) per applicare i programmi e in cui le scritte sui muri delle scuole esprimono solo rabbia. Collera senza senso e senza futuro.

Dal punto di vista di Macron e del suo governo non ci sono alternative ai tagli di bilancio. Nel 2019 il rapporto deficit-Pil della Francia sarà (salvo miracoli) ben superiore al 3 per cento del Vangelo di Maastricht. Spingersi ancora oltre sarebbe impossibile. Il sistema francese di sanità, istruzione e pensioni è già oggi considerato troppo caro. La dimensione del settore pubblico in Francia è impressionante se comparata a quella degli altri Paesi industrializzati. I posti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche superano in Francia il 22 per cento del totale nazionale dei posti di lavoro, mentre sia nell’insieme del resto dell’Eurozona e sia nell’insieme del resto dell’Ocse non si arriva al 14 per cento. Il livello della spesa pubblica francese arriva al 57 per cento del Pil, mentre l’insieme del resto dell’Eurozona e l’insieme del resto dell’Ocse sono rispettivamente al di sotto del 45 e del 40 per cento. Il peso dei posti di lavoro pubblici è calato in Francia nel corso dell’ultimo ventennio (nel 1998 era il 24 per cento), ma la relazione tra spesa pubblica e Pil è sensibilmente aumentata, visto che nel 1998 era del 53 per cento. Il boom della spesa pubblica si è verificato nel periodo della crisi esplosa nel 2008, ma poi i vari governi non sono riusciti a ripristinare i livelli precedenti.

Anche tenendo conto delle differenze tra i metodi di calcolo dei vari Paesi a proposito del perimetro del settore pubblico, il caso francese è molto particolare. Un recente studio della banca Natixis non ha dubbi in proposito: «Il peso delle spese pubbliche in Francia resta molto superiore a quello delle spese pubbliche negli altri Paesi dell’euro o dell’Ocse».

Queste spese sono finanziate attraverso un meccanismo fiscale che privilegia nettamente l’imposizione indiretta rispetto alle tasse sul reddito. Oggi i 68 milioni di francesi sono raggruppati in 37,9 milioni di nuclei fiscali, di cui solo 16,3 milioni (43 per cento) sono sottoposti alle imposte dirette. Il meccanismo del quoziente famigliare consente a gran parte della popolazione di non pagare tasse sul reddito. Chi scende oggi nelle piazze per criticare Macron non mette in discussione il quoziente famigliare né l’esenzione di oltre la metà delle famiglie francesi dalle tasse sul reddito, ma chiede l’inasprimento della fiscalità sulla fascia più agiata della popolazione. La Francia, ben più di altri Paesi, si finanzia grazie a tasse indirette, spalmate uniformamente sui consumi e sulle attività economiche e creando così una sensazione di ingiustizia sociale.

È il caso dell’Iva e anche di un prelievo istituito nel 1991 dall’allora primo ministro socialista Michel Rocard per contribuire al finanziamento dell’assistenza sanitaria pubblica: la Csg (Contribution sociale généralisée), il cui perimetro d’applicazione si è sempre più esteso e il cui tasso d’imposizione non ha smesso di aumentare. Da piccola tassa aggiuntiva (una sorta di elemosina allo Stato, destinata alla copertura malattia) la Csg si è trasformata in autentica stangata. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’aumento, voluto da Macron nel 2018, della Csg su tutte le pensioni (misura poi modificata a seguito della protesta dei Gilets gialli, con la cancellazione del nuovo salasso sulle pensioni più basse). Oggi l’imposta sul reddito porta allo Stato francese 78 miliardi di euro annui, mentre l’Iva e la Csg ne portano rispettivamente 188 e 99 miliardi. La Csg, socialmente la più ingiusta tra le imposte francesi (visto che colpisce tutti indiscriminatamente), si è rivelata per lo Stato una mucca da mungere.

Il cittadino accetterebbe meglio queste spese se fosse entusiasta del funzionamento della République e delle sue articolazioni. Purtroppo per Macron, la percezione dei francesi è quella di una crisi del sistema di protezione sociale. Crisi la cui entità dipende dai punti di vista. Molti Paesi al mondo si leccherebbero ancora oggi i baffi se avessero un welfare come quello francese, col sistema sanitario gratuito; con la pensione a 65 anni (o prima se si dispone dei necessari contributi o se si fa parte di alcune categorie, come quella dei ferrovieri); con due anni di assegno di disoccupazione, proporzionato al salario, a chi perde il proprio lavoro (che diventano due anni e mezzo per chi ha compiuto i 53 anni e tre anni per chi ha spento 55 candeline); con due milioni e mezzo di persone che ricevono il Reddito di solidarietà attiva (Rsa) per superare un momento difficile e inserirsi (o reinserirsi) nel mondo del lavoro. Ma per i figli della République le cose vanno male e peggiorano giorno dopo giorno perché il governo cerca di ridurre su ogni fronte le spese sociali.

Essendo cresciuti con l’idea di uno Stato efficace e generoso, i francesi hanno una sensazione di disagio e di delusione tutte le volte che devono - per esempio - fare una coda al Pronto soccorso di un ospedale. E siccome oggi il sistema sanitario tira la cinghia, non c’è zona dell’Esagono in cui non vengano chiusi servizi di Pronto soccorso. Nella stessa Parigi la situazione è andata peggiorando negli ultimi anni e oggi rivela il reale disagio che si percepisce in tutto il settore sanitario. Negli ospedali il malcontento è oggi un po’ ovunque. Tra i malati, tra gli infermieri e tra i medici. È diffuso soprattutto nel personale infermieristico, che si sente preso in giro dalle leggi che vent’anni fa hanno ridotto a 35 ore l’orario settimanale di lavoro. In cambio di quella riduzione, i sindacati hanno dovuto accettare il contenimento delle rivendicazioni salariali, ma oggi negli ospedali francesi (a causa del contenimento delle assunzioni) gli infermieri non possono limitarsi a 35 ore. Così accumulano straordinari sapendo che mai questi verranno retribuiti. La stessa cosa vale per gli agenti di polizia e per altre categorie del pubblico impiego, che - in varie forme - fanno oggi sentire la propria protesta.

Protestano i sindacati perché il governo sogna di modificare il sistema degli assegni di disoccupazione per meglio incentivare gli interessati alla ricerca di un impiego. Protestano i pensionati che parlano di un calo del potere d’acquisto. La realtà è che la crisi attuale del welfare non viene solo dalle cifre dei bilanci e dai calcoli economici. Viene da lontano, perché i francesi hanno assorbito, con il latte materno, l’illusione di uno Stato protettore, capace di tenerli asciutti anche sotto le tempeste. Oggi la Francia è uno Stato come gli altri, con i suoi problemi, le sue contraddizioni, i suoi errori. Constatare i limiti del welfare nazionale non è un esercizio facile per i cugini d’Oltralpe. Come se il ricordo del latte materno diventasse improvvisamente indigesto.

da Parigi, Alberto Toscano

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