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Così ho ucciso il mio persecutore

Minacce, pedinamenti, pestaggi in piena regola... Poi un giorno Zhora la fece finita col fidanzato violento, detto "il Serpente": prese un coltello e lo ammazzò

E'stata lei ad affondare il coltello. Lei ha tranciato la vena iliaca provocando la morte per dissanguamento del suo ex amante. Eppure, dice, non voleva. Lo odiava, sì, ma non aveva mai pensato di ucciderlo.

L'aggressore, poi, è sempre stato lui. Zhora el-Harfaoui, 29 anni, marocchina, voleva liberarsi di quell'uomo. Ci provava da mesi, con le buone, ma non c'è riuscita comunque: l'incubo di quella storia la insegue anche nella sua cella nel carcere di Verona: "La mia non è più vita".

Per sei anni e sei mesi, salvo possibili sorprese in appello, la giovane donna dai grandi occhi sarà costretta a ricordare. La condanna (nonostante il riconoscimento di tutte le attenuanti) è per omicidio volontario. Durante l'ultima litigata ha ucciso Rachid Chbbani, l'uomo marocchino che per mesi l'ha perseguitata, picchiata e minacciata senza che nessuno riuscisse a fermarlo. "Per due volte mi sono rivolta ai carabinieri, mi è stato risposto che per farlo arrestare servivano prove" racconta con una freddezza che dà i brividi.

All'epoca (i mesi a cavallo tra 2008 e 2009) la legge sullo stalking non esisteva: molestie e persecuzioni non costituivano reato, permettendo a Rachid l'impunità di avvelenare la vita della donna che diceva di amare. "Un amore di cui non ho mai dubitato" ammette Zhora. La voce e lo sguardo sono induriti.

Seduta in una stanzetta del penitenziario è disposta a raccontare tutto di quella storia d'amore, violenza e morte. "E' nata come una bella avventura: ho lasciato Lecce, dove l'ho conosciuto, per seguirlo a Rozzano, presso Milano. Siamo stati tranquilli per almeno sette mesi" racconta la marocchina, regolarmente residente in Italia.

Subito l'uomo le aveva messo a disposizione un bell'appartamento, da condividere con la sorella di lei, e due macchine: "Una Mercedes 220 e una Peugeot" specifica, ben conoscendo il valore di quei vantaggi. "Aveva uno strano rapporto col denaro. Spesso si dimenticava di avermi già dato i 2 mila euro per pagare l'affitto, come se non ne conoscesse il valore. Alla lunga questo atteggiamento mi ha insospettito" confessa Zhora prima di bloccarsi in un lungo silenzio. Voleva sapere di più, voleva capire la provenienza di tutti quei soldi.

Da qualche tempo aveva smesso di credere che Rachid fosse il proprietario di due autofficine, come le aveva detto all'inizio. Il suo volto rotondo e perfetto si fa, se possibile, ancora più scuro: cerca nel suo legale, Alessandra Caricato, seduta accanto a lei, l'incoraggiamento a proseguire.

"Sei stupida?"mi ha urlato Rachid un giorno. "Credi che avrei tutti questi soldi se facessi un lavoro normale?". "Da lì ho capito tutto" prosegue.

Il suo compagno era un trafficante di droga: "Lo chiamavano Serpente perché da 13 anni riusciva a insinuarsi nei giri più grossi senza mai essere arrestato". A lei non piaceva. Aveva tollerato la gelosia, combattuto dal primo giorno contro l'alcol di cui lui abusava, ma l'illegalità le faceva paura. "Volevo una vita tranquilla, volevo cercarmi un lavoro. Quando me ne sono andata dalla casa di mio padre, in Marocco, l'ho fatto perché cercavo autonomia" dice Zhora, che prima di finire tra le braccia del Serpente con la sua partita iva commerciava in capi d'abbigliamento fra la Campania e i mercati della Puglia.

Ma lui di lasciarla andare non ne voleva sapere. Non voleva perdere la sua ragazza, né vedersi rovinare la reputazione: "Sai che figura farei se si sapesse in giro che la donna del Serpente lavora... Non giocare col fuoco" le ha detto un giorno.

Nonostante questo, Zhora decide di andare avanti: prima gli restituisce la Mercedes, poi tenta di dare la disdetta alla proprietaria di casa. Rachid le sta appresso: sempre appostato sotto casa, sempre ubriaco, la segue e la spia, impedendole qualunque movimento in autonomia. Se lei decide di non pagare più l'affitto, lo fa lui. Ogni mossa è finalizzata a tenerla sotto controllo. "Per umiliarmi, un giorno si è presentato con un conto: voleva 300 mila euro".

Oltre ai soldi spesi per l'affitto di quei mesi, le addebita anche gli affari mancati a causa del tempo perso con lei. "Qualche giorno dopo, mentre mi stava picchiando, sono riuscita a placarlo con una proposta: gli ho chiesto di uscire insieme e ho guidato fino alla stazione dei carabinieri. Sono scesa prima che lui filasse via".

Nonstante i racconti e qualche segno di maltrattamento, le forze dell'ordine non intervengono. "Per me è stato un autogol. Mi aveva visto fare la spia e in più aveva capito che nessuno mi poteva difendere". Inizia, però, ad accorgersi che la storia è finita sul serio. Calci, pugni, capelli strappati sono anche la prova della sua disperazione: "Per ogni colpo a me si puniva con dieci su se stesso: si è fatto un occhio nero da solo".

Le persecuzioni finiscono il 5 febbraio 2008. La donna deve uscire per vedere un appartamento dove andare a vivere con la sorella. Come al solito Chbbani è sotto casa. Per guadagnarsi la libera uscita lei finge di essere disposta ad ascoltare ciò che lui vuole dirle: lo fa salire in casa, ma Rachid vuole solo sesso. Anzi, lo pretende.

Per convincerla afferra due coltelli da cucina e finge di affilarli. Si spoglia e li posa. Li prende lei, ne punta uno contro la schiena di lui, poi lo affonda nel braccio, seguono colpi in altre parti del corpo.

L'uomo si dimena fino a quando non riesce a strapparglieli e a scappare con tre ferite, la più grave quella che ha reciso la vena iliaca. Crollerà sul pavimento del pianterreno: quattro ore dopo, quando lei sarà già nelle mani dei carabinieri, morirà in ospedale.

"Non ho mai pensato di ucciderlo, ho capito di avergli fatto tanto male solo quando mi hanno detto che era morto" ammette sempre impassibile. "Tu senza di me non starai tranquilla. Tu senza di me non vivi" le ripeteva sempre. "E aveva ragione:" constata la donna marocchina "questa non è vita".

Mentre lo dice le guance si arrossano, gli occhi si fanno lucidi, il sorriso si schiude in una disarmante ricerca di assoluzione: non voleva far morire lui, voleva vivere lei.

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Lucia Scajola

Nata e cresciuta a Imperia, formata tra Milano, Parigi e Londra, lavoro a Panorama dal 2004, dove ho scritto di cronaca, politica e costume, prima di passare al desk. Oggi sono caposervizio della sezione Link del settimanale. Secchiona, curiosa e riservata, sono sempre stata attratta dai retroscena: amo togliere le maschere alle persone e alle cose.

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