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Cose da sapere su Schengen, l’Europa e l’immigrazione

Assad accusa l’Europa di essere responsabile del disastro siriano mentre la Turchia alimenta il caos. Ma il problema è un altro. Ed è tutto politico

Per Lookout news

Bashar Al Assad, dal suo bunker dorato tra le macerie di Damasco, ha detto che si dimetterà solo se glielo lo chiederà il popolo. Peccato che il suo popolo, dopo quattro anni e più di guerra, sia disperso tra fosse comuni, emigrazione forzata nei paesi limitrofi o, nel migliore dei casi, al sicuro in qualche parte d’Europa. Ma per Assad, “la crisi dei rifugiati è responsabilità dell’Europa”, rea di “sostenere e coprire il terrorismo”. Il riferimento è ovviamente ai gruppi di ribelli siriani, che l’Occidente ha armato e sponsorizzato a partire dal 2011, data d’inizio della guerra civile.

La Turchia ago della bilancia
La diaspora di cui parla Assad - 4 milioni di profughi e circa altri 10 milioni ancora intrappolati nella regione - è certo colpa della guerra. Ma se la colpa è della guerra, la responsabilità della recente e anomala ondata di profughi siriani verso l’Europa ha un altro nome: si chiama Turchia. Dall’inizio del conflitto in Siria, infatti, Ankara ha ospitato circa 2 milioni di rifugiati siriani, che hanno attraversato il confine per sfuggire tanto alle decapitazioni dello Stato Islamico quanto alle “barrel bomb” di Damasco.

Da quando, però, gli Stati Uniti hanno imposto al governo turco di ospitare presso la base aera NATO di Incirlik droni e jet militari USA per bombardare lo Stato Islamico - senza offrire come contropartita un appoggio politico al governo di Ankara (si vota a novembre) e soprattutto senza offrire alcun sostegno nella guerra parallela che i soldati turchi conducono contro i paramilitari curdi del PKK (che si battono per l’indipendenza del Kurdistan) - il presidente Erdogan ha deciso di reagire politicamente, aprendo le porte dell’immigrazione verso l’Europa e “ricattando” in questo modo gli alleati. Un “gioco sporco” che anche altri paesi di Africa e Medio Oriente potrebbero essere tentati di replicare prossimamente.

 In ogni caso, è bastato questo per mettere in crisi l’Europa, i suoi principi e le sue leggi. A farne le spese, per il momento sono le regole di Schengen, quelle che il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, ha chiamato “un simbolo unico dell’integrazione europea”. Che, se messe in discussione, si dice potrebbero minare la stessa sopravvivenza dell’Unione Europea.

 Ora, se il problema dell’immigrazione è certo di tipo umanitario e di ordine amministrativo, bisogna capire però che esso è anzitutto di stampo politico. E che Schengen ha poco a che fare con la risoluzione del problema. Anche perché le regole dell’accordo di Schengen parlano chiaro.

Cosa prevedono le regole di Schengen
Contrariamente a quanto si pensa, secondo le norme di Schengen i paesi aderenti possono reintegrare i controlli alle frontiere interne per 10 giorni, qualora si renda necessario per ragioni di “ordine pubblico o di sicurezza nazionale”. Se il problema persiste, i controlli possono essere mantenuti per periodi rinnovabili fino a 20 giorni e per un massimo di 2 mesi.

 Un regolamento comunitario nel 2013 ha poi precisato che tali controlli “dovrebbero rimanere un’eccezione e devono essere applicati solo come misura di ultima istanza, per un ambito e un periodo di tempo strettamente limitati”. Qualsiasi Stato che sospende temporaneamente Schengen, deve informare Bruxelles e consentire il monitoraggio e i controlli da parte dell’UE.

Dunque, la sospensione temporanea di Schengen minacciata da più Paesi e applicata in episodi pur diversi tra loro, rientra nell’accordo e non è un “tradimento” dell’Europa.

 In questi giorni, ad esempio, abbiamo visto la Germania imporre controlli alla frontiera, così come la Slovacchia filtrare il passaggio alle frontiere con l’Austria e l’Ungheria. Quest’ultima ha chiuso direttamente i confini, mentre i Paesi Bassi stanno introducendo controlli sul posto e la Polonia potrebbe seguire presto uno di questi esempi.

 Anche la Francia, nel mese di giugno, ha impedito ai migranti provenienti dall’Africa di entrare dal confine con l’Italia, bloccandoli alla stazione ferroviaria di Ventimiglia. Parigi aveva già imposto controlli alle frontiere dopo gli attentati di Londra nel 2005. Così come avevano fatto Austria, Portogallo e ancora la Germania in occasione di grandi eventi sportivi, come la Coppa del Mondo di calcio.

Il futuro dell’UE passa per il Medio Oriente
Dunque, niente di strano o di “fuori dalle regole” sta accadendo oggi secondo la legislazione UE vigente. Non è in discussione qui il diritto dei profughi di guerra a essere accolti e aiutati dall’Unione Europea e non è in discussione neanche il futuro dell’Unione Europea. Sono concetti che, al di là delle polemiche, dovrebbero essere ormai assodati e digeriti (anche se così purtroppo non è).

 Ciò che invece dovrebbe essere messo al centro della discussione è piuttosto il futuro politico del Medio Oriente e dell’Africa. Su questo soprattutto si dovrebbe concentrare la politica di Bruxelles. L’accoglienza dei profughi, infatti, è conseguenza di una situazione temporanea, frutto dell’epoca in cui viviamo e, quindi, un concetto relativo per definizione.

 Mentre l’assetto politico di uno o più stati è una questione dirimente, decisiva e ineludibile per disegnare un panorama geopolitico stabile dove, pur con tutte le contraddizioni che sono proprie degli uomini e dei loro diritti e doveri, si possano ritrovare la prosperità e il progresso, arrestando gli esodi di popolazioni intere.

 L’Europa è sicuramente fragile, ma mai quanto lo sono le giovani repubbliche, le dittature e i regimi oltre il Mediterraneo, attraversati da una guerra fratricida di cui nessuno si cura ma il cui sangue si riverserà inevitabilmente sul vicino più prossimo.

 Se è impensabile un neo colonialismo imposto dall’alto, bisogna però trovare una sintesi e una via politica percorribile per questo quadrante regionale. I popoli del Medio Oriente e dell’Africa sono parte della nostra storia e della nostra cultura, e costituiscono il luogo della terra a noi più prossimo, dove oltretutto il tasso di natalità è in continua crescita. Che cosa abbiamo intenzione di costruire per le future generazioni?

 

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Luciano Tirinnanzi