Condannati per non aver educato i figli
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Condannati per non aver educato i figli

I due giovani hanno quasi ucciso un ragazzo a coltellate. Per il giudice colpa dei genitori: "evidenti le carenze educative"

La sentenza suona assurda e insieme ragionevole. Ma chi può davvero stabilire se sia giusta? A volte, nelle pieghe dei processi si annidano scelte che travalicano i cavilli, che si spingono ben oltre la lettera della legge per avventurarsi con coraggio, o forse temerarietà, nel mare aperto dei grandi temi della vita, delle valutazioni filosofiche di fondo. Scelte che incidono nella carne delle persone, che indicano strade difficili da percorrere.

È il caso di quel giudice di Genova che ha condannato a un risarcimento di 822mila euro i genitori di due ragazzi che avevano lei 19 anni e lui 16 la notte del 6 dicembre 2008, quando per poco non uccisero un compagno chitarrista della band perché “troppo lento” nell’eseguire un pezzo, così insopportabilmente lento da “rovinare” la canzone in ricordo di un amico morto in un incidente e da meritare anche lui di morire. La storia viene raccontata dal “Secolo XIX”. I genitori della vittima, rimasta disabile al 60 per cento e da allora incapace di suonare la chitarra, hanno fatto ricorso contro i genitori degli aggressori, riconosciuti poi dal giudice responsabili di non aver saputo educare i figli.  

La responsabilità dei genitori. È qualcosa che fa tremare i polsi. Avere un figlio e doverlo capire, conoscere, educare. E se poi scopri che quel figlio, quella figlia, che ami, che non ti ha mai dato motivo di sospettare che nella sua testa vi fosse un angolo buio, un nero recesso di rabbia e indifferenza, un brandello di tenebra, ecco, se quel figlio, quella figlia, all’improvviso si rivelano mostri e potenziali assassini, tu che ne sei il padre, la madre, cosa provi? Quali sensi di colpa, quale stupore, quale angoscia, quale rimorso?

Cristina era conosciuta come “dark lady”, si vestiva da sposa, si truccava in modo eccessivo. Andrea, il fratello, nel compagno della band vedeva forse una minaccia, un rivale. Doveva esserci tra loro più di una semplice incomprensione musicale. Un agguato di notte e 40 coltellate passandosi di mano la lama, non sono una cosa normale. Non è solo un accesso d’ira. I genitori del sedicenne quasi omicida si sono giustificati spiegando che quel figlio violento non aveva mai dato segni di squilibrio: “Era sempre stato irreprensibile”.

Ma al giudice non è bastato. La colpa dei genitori sarebbe quella di non essersi accorti di nulla. “Non ci aveva mai dato ragioni di preoccupazioni”.

Per il magistrato questo “prova al massimo il corretto comportamento in ambito scolastico, il rispetto del ragazzo degli orari di rientro a casa e il fatto che il minore trascorresse molto tempo davanti al computer”. Nulla che potesse valere come prova contro “l’evidente carenza o inefficacia di educazione al rispetto dell’altro, che si desume dalle modalità e dalle motivazioni del delitto”. Modalità horror e motivazioni futili. Il delitto stesso sarebbe la prova di un’educazione inadeguata, della responsabilità della famiglia cieca o inerte, inconsapevole o peggio incosciente. Eppure, quanti genitori non hanno di che rimproverarsi e si ritrovano senza alcuna avvisaglia faccia a faccia con la rivelazione di un figlio violento? Quanti delitti sono stati commessi da minorenni per motivi venali, mossi da turbe innate fino a quel momento non emerse, fino a uccidere i genitori, i fratelli, i nonni? Di chi sarebbe la responsabilità? Chi dovrebbe risarcire chi? Fin dove si applica il criterio dell’educazione? Solo fino alla maggiore età o anche dopo? Siamo tutti figli.

E ancora: quanti atti di violenza sono stati commessi da giovani non amati, abbandonati? Più che la cattiva educazione, è la mancata presenza della famiglia, a volte pure l’ostinata difesa dei figli nonostante comportamenti violenti solo perché “sangue nel mio sangue”, a favorire o a non impedire la deriva. Anche questo è vero.

Ci sono eccome le responsabilità dei genitori, spesso per omissione. Ma quanto pesa l’indole e quanto è possibile conoscere i propri figli? Quanto incide il Dna e quanto il contesto? Fin dove arriva il dovere di vigilanza di un genitore, la sua stessa possibilità di capire?

Non ce li scegliamo noi, i nostri figli. Perfino una moglie o un marito si possono rivelare nel corso della vita perfetti sconosciuti l’uno all’altra, e violenti, pericolosi, assassini. Eppure si sono scelti.

Non può essere una sentenza di tribunale a fornire la risposta definitiva. Chi potrà mai scandagliare fino in fondo l’abisso che a volte la vita scava nel rapporto tra genitori e figli?

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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