Che fine ha fatto Kenneth Bae?
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Che fine ha fatto Kenneth Bae?

Il cittadino americano condannato a maggio è stato trasferito in ospedale, ma non è detto che la sua liberazione sia vicina

All'inizio di maggio era stato condannato a quindici anni di lavori forzati per aver "messo in difficoltà il governo di Pyongyang". Oggi, Kenneth Bae, tour operator di origini sudcoreane ma naturalizzato americano, è stato prelevato dal campo cui era stato assegnato e trasportato in ospedale.

Perché l'americano è stato condannato, e perché il regime ha deciso di riconoscere oggi che Bae ha problemi di salute che "non possono essere trascurati"?

Cerchiamo di ricostruire i fatti. Anzitutto il condannato per i nordcoreani non si chiama Kenneth Bae ma Pae Jun-ho, un nome molto più "coreano" e quindi facile da essere ricordato. 45 anni, il tour operator statunitense, in realtà attivissimo missionario cristiano, a novembre 2012 si trovava nella città nordcoreana di Rason per turismo, insieme ad altre quattro persone. Ufficialmente per un viaggio organizzato per definire possibili percorsi turistici per gli stranieri interessati ad entrare in Corea del Nord.

Arrestato apparentemente senza una giusta causa, da allora l'americano non ha più lasciato il paese. A pochi giorni di distanza dalla formalizzazione della condanna, la Corte Suprema del regime di Kim Jong-un si sarebbe però presa la briga di diffondere un comunicato per spiegare i motivi di una sentenza così dura. Per imprecisati "crimini contro il governo", infatti, la Corea del Nord prevede un minimo di cinque e un massimo di dieci anni di reclusione. Bae ne avrebbe invece meritati 15 perché sarebbe riuscito, lavorando con la copertura da operatore turistico, a coordinare una campagna diffamatoria volta a incoraggiare sia i nordcoreani che vivono all'estero sia gli stranieri a sostenere iniziative utili per far cadere il governo e, ancora peggio, avrebbe fatto entrare in Corea del Nord almeno 250 studenti affinché lo aiutassero a far crollare il regime.

Improvvisamente, proprio oggi, quindi dopo appena dieci mesi di lavori forzati (anche se la sentenza è stata annunciata a maggio, Bae è stato trasferito a novembre 2012 nel campo di lavoro in cui avrebbe dovuto scontare la pena), è stato trasferito in un ospedale poco lontano da Pyongyang perché avrebbe, parola dei nordcoreani, dei seri problemi di salute che lo renderebbero non adatto al "lavoro rieducativo".

A cosa serve questo trasferimento? E che cosa potrebbe succedere nelle prossime settimane al missionario statunitense? Come sempre quando si ha a che fare con la Corea del Nord, fare previsioni realistiche è difficile. Ma possiamo azzardare qualche ipotesi.

L'arresto di un americano lo scorso novembre era funzionale a confermare, in Corea e all'estero, la forza, il prestigio, la determinazione e l'intransigenza del "Giovane dittatore" appena "eletto". Oggi, invece, Pyongyang può permettersi di trattare perché Kim Jong-un non ha più problemi di legittimità, e inimicarsi troppo gli Stati Uniti potrebbe rivelarsi controproducente.

La famiglia di Bae sarebbe stata informata dal trasferimento dall'Ambasciatore svedese in Corea del Nord, che sarebbe stato tra l'altro l'unico straniero autorizzato a visitare il condannato negli ultimi dieci mesi, essenzialmente perché è la Svezia a curare gli interessi statunitensi in Corea del Nord.

Il trasferimento non significa che verrà liberato, perché per esserlo dovrebbe ricevere l'amnistia da parte di Kim Jong-un. Gli americani, invece, hanno chiesto (senza troppa enfasi) il rilascio immediato per "motivi umanitari". Molti analisti ritengono che per ottenere un risultato Washington dovrebbe mostrarsi più assertiva, una posizione che, tuttavia, Bae non condivide. Un paio di settimane fa il condannato sarebbe stato improvvisamente autorizzato dal regime ad inviare lettere ai familiari, nelle quali ha scritto loro di rimanere tranquilli e di essere fiducioso, aggiungendo di poter continuare ad aspettare con pazienza il momento in cui il suo caso verrà definitivamente risolto. Probabilmente un altro messaggio in codice per gli americani, che li invita a evitare di fare la voce grossa continuando a trattare con discrezione e rispetto. Perché solo così eviteranno di spingere Kim Jong-un ad approvare azioni sconsiderate solo per "salvare la faccia".  

 

 

 

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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