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ANSA/ANGELO CARCONI
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Che facciamo, governiamo? Gli alibi sono finiti

Il governo e il Pd di Renzi hanno la responsabilità di prendere i provvedimenti necessari far ripartire l'economia del paese e affrontare la disoccupazione

Quando il Presidente della Repubblica parla è bene drizzare le orecchie, soprattutto se lancia quello che nei resoconti dei telegiornali viene indicato in una scala crescente come "richiamo", "monito" o "severo monito".

Le parole pronunciate da Sergio Mattarella in occasione della festa del lavoro del 1° maggio appartengono certamente alla categoria del "severo monito"

Ma quando il Capo dello Stato traccia, con una retorica opportuna e costruttiva, la strada dicendo che "la nostra comunità non può accettare - e non potrà sopportare a lungo - che i lavoratori attivi in Italia restino una percentuale bassa, e che la disoccupazione giovanile, particolarmente nel Meridione, raggiunga picchi così alti", c'è da chiedersi: quale orecchie saranno capaci di raccogliere il "severo monito"?

Dovrebbe farlo, innanzitutto, chi è al governo.

Ecco, ma chi c'è al governo? Paolo Gentiloni è il presidente del Consiglio, ma ha forza politica e programmatica per indirizzare l'azione del suo esecutivo con interventi risoluti anche se non risolutivi?

La domanda, se posta fino alle celebrazioni delle primarie del Pd del 30 aprile, risentiva delle turbolenze interne al partito.

Oggi che Matteo Renzi ha vinto, anzi stravinto, il Pd è stabilizzato e riconosce a Gentiloni il suo ruolo.

L'ex premier ha inoltre voluto al suo fianco come vice segretario il ministro dell'Agricoltura, Maurizio Martina, conta sull'appoggio incondizionato di numerosi ministri e sull'obbedienza del suo principale antagonista alla segreteria e cioè il ministro della Giustizia Andrea Orlando.

Verrebbe da dire che non ci sono alibi: il governo poggia su una base di acciaio.

Dopo la vittoria, Renzi ha dichiarato di voler aprire una pagina nuova e c'è da sperare che sia così.

Perché il giorno dopo il "severo monito" del Quirinale e l'affermazione renziana ai gazebo, i numeri, quelli che inchiodano tutti alla realtà, sono stati impietosi: i disoccupati over 50 per la prima volta nella storia hanno superato quelli tra i 15 e i 24 anni mentre la nostra disoccupazione giovanile con il 34,1 per cento (al Sud siamo quasi al 60) doppia quasi la media europea (19,4) ed è lontana anni luce dal 6,7 della Germania.

Questi dati da soli dovrebbero una volta per tutte fermare il defatigante derby sul Jobs act, l'infinita disputa che arriva puntuale tra esecutivo e opposizione ad ogni sospiro dell'Istat.

Piantatela, fate silenzio e ascoltate Mattarella: siamo quasi al punto di non ritorno, la nostra comunità "non potrà sopportare a lungo" questo stato delle cose. Il governo dedichi attenzione alla "cara" Confindustria, la stessa che sfidando l'impopolarità ha sostenuto e osannato Renzi.

Oggi ufficialmente dichiara che, a dispetto della vulgata corrente, nella manovra sono "evidenti alcuni aumenti del carico impositivo" (volgarmente dette tasse) e soprattutto che a causa di ciò c'è una "crescente difficoltà di programmare investimenti". Se Renzi vuol davvero scrivere una pagina nuova sarebbe bene che chiarisse il rapporto con due terminali fondamentali nell'azione del governo: il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e quello dello Sviluppo economico, Carlo Calenda.

Prima dell'autunno dovrà essere sbrogliata la matassa dell'Alitalia, occorrerà fare in modo che inizi davvero la ricostruzione nelle zone colpite dal terremoto. Poi sarà il momento della verità con il coraggio di una manovra monstre che potrà affrontare solo un governo al riparo da tentazioni di bassa politica anche perché arriverà alla vigilia della ritirata progressiva della Banca centrale europea dall'acquisto dei nostri titoli di Stato.

Da quel momento, gennaio 2018, saremo senza ombrello e i primi scrosci di pioggia di un possibile diluvio si avvertono con il progressivo sganciamento dei grandi fondi internazionali dall'Italia. Questo scenario non va sottovalutato, perché è drammaticamente reale. Non affrontarlo significa far arrivare il Paese in ginocchio alle prossime elezioni. E se fosse così le responsabilità saranno chiarissime.

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Giorgio Mulè