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(Getty Images)
Calcio

Il Milan arabo nasce tra stranezze e certezze

La trattativa tra Elliott e Investcorp spedita (nonostante le gaffes social), l'illusione di un mercato folle e la scelta di continuità con l'attuale gestione. Sana e, quindi, appetibile per tanti - PERCHE' IL MILAN E' DIVENTATO UN AFFARE

Nella trattativa che porterà, a meno di sorprese, il Milan nelle mani di Investcorp chiudendo l’era del fondo Elliott ci sono poche ma solide certezze. La prima è che Paul Singer non aveva messo in vendita il club, non in questa fase storica, ma nemmeno chiuso all’ipotesi di una sua cessione tanto da aver accettato di dialogare con Mohammed Alardhi e con i suoi uomini sulla base di valutazione di un miliardo di euro almeno. Che appare una cifra altissima, ma che è addirittura sottostimata se si ragiona sulle abitudini di Elliott, solito farsi remunerare meglio il denaro che investe rispetto alla possibile plusvalenza che maturerà liberandosi della società rossonera acquisita nell’estate 2018 come pegno per il debito non ripagato da Yonghong Li.

L’altra certezza è che intorno al Milan, negli ultimi mesi, si sono mossi in tanti. Tutti attratti da un’azienda quasi totalmente risanata in meno di 1.500 giorni, che si avvia ad avvicinare l’equilibrio in un settore complicato come quello del calcio professionistico (dopo essere partita da passivi vicini ai 200 milioni di euro), con risultati di campo consolidati, brand in fase di rilancio a livello internazionale e un dossier stadio avanzato anche se non definito.

La sintesi delle due certezze porta alla conclusione che la trattativa è reale – anche al netto di qualche uscita social poco abituale quando si discute di deal di questa portata – e che il mese di maggio segnerà, in un verso o nell’altro, un bivio nella storia recente del Milan. C’è anche un’altra certezza, seppure frutto di ragionamento più che di voci uscite da dentro: se anche dovesse passare di mano e finire a Investcorp, il Milan dei prossimi anni continuerebbe sulla strada tracciata da Elliott e dal suo management, senza salti nel futuro ma con priorità a una gestione equilibrata e solida. Non significa abbandonare i sogni di gloria, piuttosto fare tesoro di quanto accaduto nelle ultime due stagioni; Gazidis, uomo di fiducia di Singer, ha costruito un’azienda capace di coniugare crescita sportiva e conti in ordine. Per questo è diventata appetibile sul mercato finanziario e per questo sarebbe una follia immaginare che i prossimi proprietari, anch’essi espressione dello stesso humus, si mettessero a ragionare come mecenati impazziti.

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Continuità che significa anche non azzerare il gruppo operativo sulla prima linea. E’ vero che tradizionalmente chi compra sceglie i propri uomini nei ruoli chiave, a partire da quello di amministratore delegato in cui oggi c’è Ivan Gazidis, ma se il presupposto è che il club funziona bene e proprio per quello ha un valore, è difficile che si immagini un ricambio immediato e radicale. Gazidis ha un contratto che lo porta anche dentro la prossima stagione (scade a novembre 2022) mentre Paolo Maldini e Frederic Massara, gestori dell’area sportiva, sono in scadenza a giugno con ottime chance di andare avanti chiunque siederà ai piani altissimi della sede di via Aldo Rossi. Del resto, il prossimo mercato non sarà poi così diverso da quelli che lo hanno preceduto. Non è un invito a non illudersi su investimenti da centinaia di milioni di euro da riversare in Europa, ma una lettura realistica di come un club può e deve essere gestito in questa delicata fase di uscita dalla crisi pandemica.

Maldini ha già impostato alcune operazioni, anticipando l’avvio della sessione. Elliott ha imparato ad apprezzarne i metodi di lavoro pur consapevole che non tutte le scelte sono state azzeccate, circostanza peraltro comune a tutti i dirigenti – anche i migliori – che si occupano di pallone. Non c’è ragione, dunque, per pensare a un Milan senza di lui o a una rivoluzione. Semmai è logico aspettarsi un impulso ulteriore da parte di un’entità che non vede l’ora di entrare nel mondo del calcio dalla porta principale (il Milan per il suo brand lo è), che non sta facendo nulla per nascondere questa sua ambizione, anche a costo di qualche gaffe social, e che in Italia ha una storia di partecipazioni di successo nel lusso, settore di riferimento insieme all’immobiliare e alle infrastrutture.

L’obiezione che Investcorp sia inferiore rispetto ad Elliott non regge davanti all’analisi di chi c’è alle spalle del fondo nato nel 1982 in Bahrain. E’ vero che il portafoglio gestito da Mohammed Alardhi è di poco inferiore ai 40 miliardi di dollari contro i 52 di Elliott, ma la presenza di Mubadala nella compagine azionaria lo proietta tra le realtà più solide nel panorama internazionale. Il link diretto è con l’esperienza che Mubadala, fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, sta facendo dal 2017 con il Manchester City, trasformato in uno dei club più potenti del mondo sotto la guida di Khaldum-al-Mubarak. Il Milan non è atteso nell’immediato dalla stessa sorte e però i suoi margini di crescita sono evidenti ed enormi con sullo sfondo anche l’operazione stadio la cui accelerata delle ultime settimane, con la minaccia di trasferire il progetto da 1,2 miliardi di euro in coabitazione con l’Inter nell’hinterland cittadino viste le difficoltà burocratiche con Palazzo Marino, può essere letta anche come ulteriore conferma di essere arrivati al bivio descritto.

Accompagnato da queste suggestioni, il Milan sta entrando nel mese caldo della stagione. Difficile non lasciarsi distrarre dalle voci e da quanto accade fuori dai cancelli di Milanello, anche se in palio c’è uno scudetto che sarebbe qualcosa di storico perché vinto non dal club più facoltoso e nemmeno da quello che innerva le proprie ambizioni a colpi di ingaggi e operazioni faraoniche. Una sorta di oasi nel deserto di un calcio italiano rassegnato a bruciare denaro in quantità gigantesche semplicemente per restare a galla mentre gli altri corrono. Il segnale del cambiamento, se avverrà.

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Giovanni Capuano