La mossa di Berlusconi, la paura di Bersani
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La mossa di Berlusconi, la paura di Bersani

Un po' di chiarezza per capire meglio questa (cruciale) settimana politica

Dico sempre che c’è una logica nella politica, così logica da farla apparire simile alla fisica: pesi e contrappesi, azioni e reazioni. Quello che è successo a Bruxelles il 14 dicembre (e il giorno prima e il giorno dopo) fa parte della logica.

Berlusconi si rende conto di non poter essere più il magnete che tiene uniti tutti i pezzo dell’elettorato di centro destra, fra cui la Lega che per bocca di Maroni dice di non poterlo più accettare come candidato premier, e di poter svolgere il ruolo previsto dal suo “piano B”, quello del padre nobile ma anche del promotore.

Berlusconi con molto tempismo ha anticipato quel che sarebbe stato detto nel Ppe, e cioè che si deve seguitare a dare sostegno a Mario Monti e che l’operazione “Italia in Europa” può proseguire solo sotto la sua guida, sia pure con una serie di correzioni.

Ma, più ancora, è emerso che Monti è il candidato ideale per un fronte alternativo a quello della sinistra guidata da Pierluigi Bersani. E qui, giù il cappello: Bersani è un galantuomo, ha una faccia emiliana simpaticissima, è stato un buon ministro dell’Industria ed è l’allievo e il partner preferito da Crozza (“Ohè, ragazzi, non è che la gallina va nel brodo per fare l’idromassaggio, eh?”). Ma agli occhi di una larghissima parte dell’Italia rappresenta ancora la perfetta continuità del Pci che ha cambiato un sacco di nomi, ma sempre Pci resta, sia pure con una dose di cattolici di sinistra.

Ciò detto, si assiste a un curioso fenomeno che tutti voi potete apprezzare quando, nelle interviste e commenti di questi giorni, qualcuno chiede ad esponenti del Partito Democratico che cosa pensi di una eventuale – molto eventuale – discesa in campo di Mario Monti in politica.

E’ un disco rotto che ripete sempre – fateci caso – lo stesso ritornello: “Oh no, sarebbe un peccato! Una personalità come quella di Mario Monti, un patrimonio italiano che non deve spedersi nell’agone politico ma restare a disposizione della Repubblica”.

Traduzione: “Ci fa venire la pelle d’oca solo il penero che davvero Mario Monti possa diventare il leader di uno schieramento liberal-conservatore e guidarlo alle elezioni, perché un tale schieramento ci farebbe un culo così e ci metterebbe fuori gioco dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per emergere con le primarie”.

E’ questo, mi sembra, il dato nuovo che emerge dal bla-bla-bla del giorno per giorno: il Pd si sente mancare la terra sotto i piedi all’idea di dover competere con Mario Monti. Il quale Mario Monti, serafico e agnostico, impersonale e aureo, nel suo castello di modeste espressioni formali si guarda bene dal prendere posizione di fronte all’ipotesi, e anche l’offerta, di guidare lo schieramento che in larga parte – ma Lega a parte – fu quello guidato a suo tempo da Silvio Berlusconi.

Monti è abbottonatissimo. In loden per di più. Quando gli chiedono che ne pensa, risponde come avrebbe potuto rispondere il Cavaliere Inesistente di Italo Calvino: “Voto? E’ inopportuno parlarne. Siamo più sereni affrontando il 2013: la disciplina di bilancio è ormai acquisita e si tratta di risultati importanti”.

Come dire: Non ho detto di sì, ma non ho detto neppure di no: prima si sciolgano le Camere e poi io sciolgo la mia riserva.

Si sa che Giorgio Napolitano è teso e anche un po’ arrabbiato perché vorrebbe che Monti si comportasse come reclama il PD: un uomo “en reserve”, un nome importante per la patria in pericolo, ma che per carità non attraversi il Rubicone con le sue legioni di prestigio, notorietà e stima, per entrare nella Repubblica e minacciare gli ottimati del partito comunista, ora PD (non uso questa distinzione per stizzosa retorica, ma perché la sconfitta di Matteo Renzi ha fatto saltare l’occasione di trasformare una buona volta l’ex Pci in un partito socialdemocratico normale).

Se Monti tace, Berlusconi parla.

Tutti si chiedono che fa, che farà, se si rimangerà la parola data e la promessa fatta, ma anche in questo settore – la mente di Berlusconi – la logica aiuta più della cronaca macchiettistica. Berlusconi in prima battuta è stato tentato di tornare in campo correndo da primo ministro per mancanza assoluta di altri leader nella sua area. Un’area, quella della destra italiana, variegata e multiforme, capricciosa e un po’isterica, che per stare insieme ha bisogno di un domatore e di un suonatore di flauto magico.

Ma il domatore ha perso appeal con le sue belve e i flauti incantano molto meno di prima. Berlusconi ha in un primo momento deciso di andare giù di piatto mettendosi a capo della rivolta popolare contro le tasse, l’Imu, la patrimoniale, il soffocamento delle imprese e la disoccupazione crescente. Ma quella rivolta non aveva bisogno di lui per mettersi in moto e la Lega ha sbarrato il passo al Cavaliere: possiamo fare accordi col tuo partito, ma non ti vogliamo come aspirante premier. Altre vaste aree del Pdl hanno dimostrato di non voler attaccare Monti, ma anzi di volerlo fiancheggiare riconoscendogli leadership, oltre che doti di eccellente capo del governo.

Così Berlusconi ha capito che la strada era più dura di quanto immaginasse ed ha fatto una scelta spiazzante: se l’uomo della nuova stagione acclamato anche dalle folle di destra è Mario Monti, e allora sia: vada lui a guidare il mio popolo, purché lo accetti e lo adotti come il suo popolo. Ciò accadeva il 12 dicembre, un giorno prima della riunione di Bruxelles del Partito popolare europeo.

Ed è stata la salvezza di SB perché ha battuto sul tempo i suoi critici europei che lo accuseranno, giovedì 13, di aver osato affossare il governo Monti, sia pure con poche settimane d’anticipo sulla scadenza naturale del governo e della legislatura. In questo modo si è chiamato fiori dalle randellate che ritualmente gli sono state somministrate e lo ha fatto alla sua maniera, rilanciando. In fondo, ricordiamo, quando Berlusconi scese in campo per le elezioni del 1994 già vinte sulla carta da Achille Occhetto e la sua “gioiosa macchina da guerra” del PDS (uno dei tanti nomi del post PCI) lo fece perché glie lo chiesero in ginocchio Gianni Agnelli, Francesco Cossiga, Renato Altissimo segretario del PLI e altri protagonisti italiani terrorizzati dall’imminente vittoria dei comunisti appena resi disponibili dalla caduta dell’impero sovietico.

Successe allora che Berlusconi resistette e cercò di mandare avanti Mario Segni, una stella di quel periodo per le vittorie straordinarie dei suoi referendum, ma purtroppo Segni non se la sentì di procedere verso la presa del potere che aveva a portata di mano, perché il segretario della Democrazia Cristiana, Mino Martinazzoli, glielo impedì. Fu allora che Berlusconi venne invitato a una cena segreta al Grand Hotel di Roma (Rossignolo rappresentava Agnelli) e bevve l’amaro calice, del tutto poco convinto, visto che temeva già un accanimento giudiziario e mediatico. Ma, per mancanza di concorrenti, accettò e Agnelli pronunciò la celebre cinica frase “Se lui vince, vince per tutti. E se perde, perde da solo”.

Poi Berlusconi assaggiò, da quel narcisista che è, il frutto proibito del potere politico, i meeting internazionali, gli abbracci del presidente americano Bush e i baci dell’uomo nuovo russo, Vladimir Putin emerso dalle antiche nebbie del KGB.
Ricordo questo frammento del passato per sottolineare il fatto che Berlusconi, per quanto ami fare il capo del governo, amerebbe ancora di più medicare le sue ferite di uomo d’affari e rimettere insieme il patrimonio di famiglia. E dunque Berlusconi, paradossalmente (e con un colpo di mano di rara spregiudicatezza) ha dato il suo “endorsement”, la sua scelta e preferenza, allo stesso uomo che pochi giorni prima aveva deciso di far cadere in Parlamento annunciando di non sostenerlo più con la sua maggioranza. In politica si può fare e si fa.

Tanto è vero che si può fare che, come tutti abbiamo visto, le reazioni al ritorno in campo di Berlusconi sono state urlate, gigantesche, sproporzionate, demenziali e fuori misura. In fondo, sarebbe bastato dare una breve notizia: “Berlusconi sta pensando di ricandidarsi”. Invece, l’apocalisse. Perché? Perché Berlusconi è realmente portatore di una possibile apocalisse. Prima di tutto, se si ricandidasse da solo, ipotesi non ancora tramontata e archiviata, riuscirebbe comunque a mettere insieme molti pezzi oggi dispersi delle sue antiche legioni facendo leva sui risentimenti fiscali contro Monti accusato di fare una politica filo tedesca. Questo primo approccio non ha dato però i risultati sperati e l’abbiamo visto: Maroni e i suoi leghisti non lo vogliono come candidato primo ministro e il parterre europeo e americano si è messo a gridare al lupo dando fondo ad un inatteso isterismo di massa.

Ed allora, piano B, Berlusconi ha sparigliato e si è impossessato della candidatura eventuale di Monti. A questo punto, se Monti resta dietro le quinte, si candida Berlusconi. Ma se Monti si candida, allora Berlusconi griderà con voce più potente di quelle di Casini  Fini e Montezemolo, che è il suo candidato.

Ed ecco che il cerino torna a Mario Monti. Che farà? Non rivelo un segreto se dico che io stesso, nel mio piccolo, gli ho suggerito di correre in politica, farsi legittimare dal popolo e governare per quel che è: un leader liberale che deve mettere in protezione il Paese dalle idee disastrose e anzi catastrofiche di Vendola, il quale oggi è l’uomo che condiziona Bersani. Inoltre, Casini dovrà scegliere: vuol fare l’uomo del centro? E allora non basta che attacchi la destra. Impari ad attaccare anche la sinistra smettendo di flirtare con Bersani, dal momento che Bersani si è politicamente fidanzato con Nichi Vendola, nemico giurato di Monti e della sua politica.

E qui ci sembra di aver chiuso il giro panoramico a 360 gradi della politica alla vigilia del Natale 2012. Monti dovrà decidere se restare come premier politico dopo aver ottenuto la legittimazione popolare, e allora avrà dovuto anche scegliere se schierarsi a destra o a sinistra. O al centro, cosa che ci permettiamo di sconsigliargli vivamente perché il centro da solo non fa terzo polo, ma soltanto terzo pollo.

E se scende in campo come nuovo campione dell’Italia liberale moderna, sarà un nuovo Cavour, un rifondatore della democrazia italiana. Ma dovrà essere politicamente “contro” la sinistra. Nei suoi modi suadenti ed educati, magari in inglese, ma contro. E questa scelta – lo ripetiamo – non dipende da Monti, ma dipende dal PD e dal suo segretario. Il PD ha bocciato Renzi – che avrebbe potuto essere il rifondatore socialdemocratico – e il suo segretario ha scelto Vendola. Dunque da quella parte un vero liberale non può che aspettarsi intralci, sabotaggi, ripensamenti, chiacchiere fatue e dispiaceri.

Governare il popolo liberale e della destra italiana è un’arte che richiede abilità enormi, ma sappiamo che Monti ha anche quelle. Se dà il via libera, non renderà vani il patrimonio originario dell’area di destra nata dopo il 1993, ma potrà attingere da quel forziere. Se tentennerà e resterà dov’è, al massimo potrà salire al Quirinale e di lì darsi alla moral suasion, ma ci sembrerebbe veramente uno spreco. Tutto ciò ho detto al presidente del Consiglio io stesso durante una lunga chiacchierata informale a Palazzo Chigi quando sono andato a portargli una copia del mio libro “Senza più sognare il padre”, in cui gli dedico una pagina finale. Monti mi ha ascoltato con un’attenzione che mi è sembrata intensa. E non sono soltanto io a sperare che, appena chiiuse le Camere, dia finalmente il lieto annuncio: la rivoluzione liberale moderna ed europea è possibile e noi la faremo

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Paolo Guzzanti