Barletta un anno dopo. Non si era detto mai più?
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Barletta un anno dopo. Non si era detto mai più?

Ottobre 2011: nel centro della città pugliese crolla un palazzo e muoiono cinque donne fra le macerie di un laboratorio abusivo. Oggi, nonostante le affermazioni dei politici, il lavoro nero è ancora la regola. E i caporali trattano gli ingaggi in piazza, davanti a tutta la città.

Alle 6 e mezzo di sera il sole cala inesorabile anche in piazza Aldo Moro. È in quell’attimo che l’agorà di Barletta comincia a popolarsi. Per primi arrivano gli uomini delle campagne, callosi di fatica e rugosi di sole ma profumati di dopobarba antichi. E poi facchini, manovali, mastri di cantiere. Intorno alle 5 hanno lasciato zappe e betoniere per passare da casa, ripulirsi e infine ritrovarsi al bar. Giocano a carte, sorseggiano un anice primitivo e trattano il  compenso del giorno dopo. Per loro e per le loro donne.

Il rito, arcaico, funziona così: l’ingaggio è quotidiano, secondo le necessità dello «zio», il padrone, che è benestante, conosce le leggi e sa come aggirarle. Per esempio, è comune che i vantaggiosi sussidi statali per i braccianti agricoli vadano a contadini fittizi, parenti o prestanome fa lo stesso, con le mani curate e i volti riposati. O che i muratori a servizio vengano registrati soltanto in caso di incidenti sul cantiere, cioè dopo che sono morti o feriti gravi. Ciononostante, in piazza Aldo Moro gli uomini dell’ingaggio non puoi chiamarli «caporali», sfruttatori, perché gli sfruttati s’arrabbiano: «Il lavoro è lavoro, punto e basta». I più vecchi, addirittura, «non sanno nemmeno cosa sia il nero», certifica Rino Daloisio, giornalista e
storico della città.

È così vero che della loro condizione parlano apertamente, rivendicano persino orgogliosi i palazzi che costruiscono e i frutti che colgono, mentre ostentano davanti alla macchina fotografica i loro innesti miracolosi. «E poi mica facciamo i cinesi, qui veniamo pagati bene». Almeno per i canoni meridionali: «Quattro euro l’ora i braccianti agricoli, 5 i manovali di cantiere, 9-10 i mastri». Tutti in nero, naturalmente.

L’agorà dista 42 passi esatti dalla (fu) via Roma 10. Dodici mesi fa, per una settimana, in Italia si parlò soltanto di questo: del palazzo crollato il 3 ottobre 2011 e delle cinque ragazze crepate nel «sottano», lo scantinato abusivo dove lavoravano abusivamente per una conceria abusiva. Sono rapidamente diventate le vittime più dimenticate della recente storia italica, nonostante Pina, Matilde, Giovanna, Antonella fossero sotto i 37 anni d’età. Maria, la più piccola, di anni ne aveva addirittura 14. Era la figlia del proprietario, Salvio Cinquepalmi. Dio lo perdoni ancora e lo accudisca sempre.

Là dove c’era il palazzo ora c’è solo asfalto. Lo slargo, recintato, è abitato da una colonia di gatti neri, che marcano il territorio. Il rumore più forte lo produce un neon difettoso. La memoria delle martiri è invece affidata al pellegrinaggio dei devoti e alla commozione dei passanti. Ci sono fiori di campo, lumini votivi, cartelli lirici e malinconici, mai rabbiosi. Eppure l’inchiesta sulla strage non decolla, attende per metà novembre le conclusioni del perito della Procura di Trani ed è ferma a 17 indagati: tutti tecnici, nessun politico. Il silenzio dignitoso è certo indotto dal fatto che a ogni famiglia delle vittime è stato opportunamente garantito un posto di lavoro, sicché il sacrificio delle operaie ha perlomeno contributo a sfamare i loro congiunti. Ma soprattutto pesa l’atavico fatalismo meridionale, la rassegnazione alla immutabilità delle cose. E infatti, nonostante lo sdegno mondiale, gli appelli del presidente Giorgio Napolitano, le urla, le lacrime, le cose a Barletta sono rimaste uguali. O quasi.

Nei primi 4 mesi dopo il crollo, i controlli si sono intensificati. Gli zii dei sottani si sono dovuti adeguare, la reazione è stata puntuale. Non pagano più le lavoranti 3,95 euro l’ora, hanno aumentato a 5 euro pur di raccattare manodopera. Il fatto è che le donne del Sud sono fataliste ma pratiche. Spinte dal pandemonio mediatico del 2011, hanno capito che la schiavitù, almeno quella totale, non conviene. Non certo per i crolli (il caso è unico), ma perché quegli ambienti malsani inducono il corpo a reagire male, accorciano la vita causa cancro. A partire da Natale il grosso della manifattura abusiva ha perciò traslocato dai sottani agli appartamenti privati: quando si dice casa e bottega.

Esplorare al mattino le splendide viuzze della vecchia Barletta, anzitutto del quartiere di Santa Maria, significa farsi stordire dall’odore di colla e coloranti. I silenzi abitati delle case nascondono donne chine sui telai. Impastano mastice, cuciono stoffe, tinteggiano pelli. E se alzano lo sguardo ti
sorridono sorprese e fiere. Le sorregge la dignità del lavoro. La legalità è un’altra storia, una faccenda che proprio non appartiene loro. Pesa l’istinto di sopravvivenza. Ma non è solo una questione di salute. Producendo a cottimo, a casa propria, si incassano più dei 40 euro al giorno dei sottani, e si può pure fare la moglie a tempo indeterminato, l’unica assunzione certa in un Sud dove, percentualizza l’Istat, «è occupato solo il 16,9 per cento delle ragazze sotto i 30 anni». E dove il tasso di disoccupazione femminile generale è intorno al 39 per cento. A Barletta supera il 50, ma è solo un dato ufficiale: migliaia di donne lavorano stabilmente in nero. Anche nel terziario. Principalmente per la «Barletta da bere».

La movida ruota attorno ai 2 chilometri quadrati di piazza della Disfida ed è una liturgia notturna di arte, musica e scontrini fiscali negati. Viene celebrata dagli anni Settanta, quando la città deteneva il quinto reddito pro capite d’Italia ed era considerata la Milano del Sud. Lo è rimasta fino agli
anni Novanta, quando la globalizzazione ha fregato gli imprenditori locali. Di quel tempo è «rimasto anzitutto il lato estetico, come il lusso, seppure comprato a rate» spiega Mario Sculco, coordinatore di Barlettalife.it.

Poi c’è l’aspetto comportamentale: ancora oggi le fabbriche si svegliano presto mentre Barletta si alza tardi. Le strade si riempiono di odore di conceria già all’alba: di persone e rumori non prima delle 11.

È allora che aprono i bar migliori e arrivano a consumare i protagonisti della movida, anzitutto le belle giovanotte stanche che la sera prima servivano gioiose ai tavoli. Parlano la stessa lingua di tante altre ragazze del Sud, desiderose di rimanere meridionali anche nei luoghi: la laurea a Bologna o a Milano, «ma Barletta è un’altra cosa»; «il lavoro regolare che, mannaggia, non c’è»; «l’arte di arrangiarsi»; «i 7 euro l’ora per lavorare dalle 20 alle 2 di notte, manco pochi»; «sono soldi in nero ma che dobbiamo fare?»; «è faticoso ma almeno siamo tornati a casa nostra». È il fatalismo di ritorno.

A tutto questo la politica ha reagito con un «protocollo d’intesa per la legalità e la sicurezza del lavoro», firmato a un anno esatto dalla strage dal governatore pugliese Nichi Vendola e dal sindaco Nicola Maffei. È un documento pieno zeppo di buone intenzioni, per carità, ma che sa tanto di placebo. Reso poi ridicolo, 10 giorni dopo, dall’ennesimo scandaletto locale.

La giunta comunale ha trasferito una parte dei fondi destinati ad «assistenza, beneficenza pubblica, contrasto alla povertà» a una spesa «sopravvenuta e urgente»: le ferie non godute di tre dirigenti comunali. La cifra più alta, 35.720 euro, è destinata ad Alessandro Attolico (al quale è stato anche rinnovato il contratto), che di mestiere fa il dirigente dello staff di Maffei, proprio il sindaco che firma i protocolli per la legalità. Mentre ad appena 80 metri dal municipio insiste la solita piazza Aldo Moro. L’agorà dei paradossi. Qui affacciano le sedi di partiti, sindacati e patronati, presunti difensori dei diritti. Qui si celebrarono i funerali, strazianti, delle martiri. Qui replica, inesorabile, l’eterno film del lavoro nero.

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Carlo Puca