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Assad, negoziatore scaltro

L’avanzata di Al Qaeda e il ruolo sempre più marginale dei ribelli costringono l’Occidente a cercare un compromesso con Assad per arrivare a una soluzione del conflitto in Siria

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Nell’analisi dell’andamento del conflitto in corso in Siria al momento sono solo tre i punti fermi da poter tenere in considerazione: il presidente Bashar Assad non ha ancora perso, Al Qaeda potrebbe vincere, mentre l’Occidente semplicemente non è pervenuto. Chi ha perso senza possibilità di redenzione è la cosiddetta opposizione laica, o meglio le varie fazioni che hanno cercato con alterne fortune di coalizzarsi. Ci sono riusciti solo nel nome dell’organizzazione, vale a dire la Coalizione Nazionale Siriana, talmente disunita da non riuscire a esprimere una sola figura carismatica capace di capitalizzare un consenso vasto e trasversale.

 

Assad “il negoziatore”
Nelle ultime settimane di dicembre è iniziata l’operazione per lo smaltimeno in mare delle scorte di agenti chimici denunciate dal governo siriano su “invito” principalmente della Russia e, a seguire, degli Stati Uniti. È comunque probabile, per non dire certo, che Assad abbia fatto il possibile per trattenere una parte dei barili d’iprite o gas nervino, ma la quantità di agenti chimici sottratti a Damasco è comunque tale da garantire una significativa riduzione della sua capacità militare sul piano chimico-batteriologico.

Alla luce di quanto sta accadendo, con la sostanziale distensione dei rapporti tra il regime e la comunità internazionale, Assad si è rivelato un negoziatore scaltro, sempre pronto in questi mesi a sfruttare i non pochi assist del Cremlino. Allo stato attuale rappresenta pertanto un nemico assai meno “infido” rispetto al fronte islamista che, invece, costituisce la vera spina nel fianco di Stati Uniti e ONU.

 

L’inazione dell’Occidente ha favorito l’ascesa di Al Qaeda
Il risultato di questa situazione è che l’amministrazione Obama non è più così decisa nei suoi proclami come qualche tempo fa, l’Europa balbetta, mentre la NATO ha preferito farsi da parte. Pensare però che la Siria sarebbe implosa come la Libia, si è rivelato un grave errore. Non essere intervenuti nel Paese con una forza di peacekeeping nei primissimi mesi ha prodotto, infatti, diversi effetti negativi. In primo luogo, Assad ha avuto il tempo di riorganizzarsi e infliggere pesanti perdite umane e materiali ai ribelli. Inoltre, organizzazioni come Hezbollah, il Fronte Al Nusra e soprattutto lo Stato Islamico nell’Iraq e nel Levante, sono diventate sempre più incisive, appropriandosi progressivamente di un conflitto che invece sarebbe dovuto rimanere nell’ambito del popolo siriano.

 

In questo scenario, la figura e il peso internazionali di Assad si sono sensibilmente rafforzati, perché, di fatto, il suo regime è l’unica forza ben organizzata capace di tenere testa al rischio di un’afghanizzazione della Siria. Nel frattempo, anche la variegata galassia jihadista-qaedista ha gettato la maschera, dando inizio a un conflitto trasversale che fa tremare Libano, Israele e soprattutto Giordania (che in caso di operazioni di difesa si troverebbe del tutto impreparata, sia sul piano militare che dal punto di vista psicologico).

 

Sin dove può arrivare Al Qaeda?
Lo Stato Islamico nell’Iraq e nel Levante (ISIS, edizione riveduta e corretta di Al Qaeda in Iraq) non ha esitato a dichiarare guerra senza quartiere a tutti i rivali, senza fare distinzioni di appartenenza religiosa. L’organizzazione ha un respiro sovranazionale e punta a fondare un califfato che non tiene conto dei confini tracciati sulla carta qualche decennio fa. Quel progetto non dovrebbe comunque realizzarsi pienamente: un’entità politica fondamentalista sulle coste del Mediterraneo sarebbe osteggiata anzitutto dal popolo siriano e, inoltre, non sarebbe nell’interesse degli attori regionali, Turchia compresa. Basti pensare a cosa sta accadendo nelle aree a maggioranza curda, nel nord della Siria o a cavallo del confine con la Turchia, dove ormai non si combatte più contro Assad, ma fra curdi e islamisti radicali. In quest’ultimo caso, anche le colpe del governo di Ankara sono evidenti. La sua eccessiva acquiescenza verso i ribelli (senza distinguere fra gli autentici rivoluzionari e gli avventurieri) ha spronato la comunità curda a imbracciare di nuovo le armi, proprio mentre in Turchia sembrava stesse avviando una normalizzazione con il PKK.

 

Scenari possibili
Per l’Occidente e l’ONU forse l’ultima carta da giocare, prima che la situazione precipiti irrimediabilmente, è scendere a patti con Assad e concedergli qualcosa in più di un semplice salvacondotto, che gli risparmi il deferimento alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. È ovvio che, dopo il bagno di sangue e il disastro umanitario causati dalla guerra civile, il suo volto non sarà più presentabile una volta cessate le ostilità. Nonostante ciò, al momento solo il suo regime ha le capacità logistiche e militari per evitare che, fra due anni, Damasco assomigli a Kabul.

 

In previsione della Conferenza di Ginevra-Montreux, una via percorribile che si sta valutando per evitare il peggio è anche quella di un massiccio intervento militare di peacekeeping sotto l’egida dell’ONU, per consentire ad Assad di riorganizzare le forze e battere poi i gruppi di matrice jihadista-qaedista. Solo a quel punto, secondo quanto sussurrano alcuni analisti, sarebbe possibile ragionare su una qualche forma di transizione. Inoltre, a un simile intervento concordato con Damasco, Mosca e Pechino non potrebbero opporsi. La contropartita sarebbe garantire un ruolo importante alla comunità alawita e al regime siriano anche in futuro. In altre parole, uno degli scenari più verosimili potrebbe essere una Siria senza Assad (che non faticherà a trovare un esilio dorato per sé e la sua famiglia), ma in cui l’eredità politica della sua famiglia e del suo clan continueranno a pesare.

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Luciano Tirinnanzi