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Angelino Alfano, l'ultima trincea del PDL

Ritratto dell'uomo che Berlusconi ha designato come erede e che oggi, al Senato, ha difeso se stesso (e il futuro del governo). Gli uomini chiave del caso Ablyazov

Giuseppe Procaccini, il capo gabinetto del ministro dell’Interno Angelino Alfano, si è dimesso ieri sera, dopo le polemiche che hanno investito il ruolo che ha avuto nella gestione del caso del dissidente kazako, e uomo d'affari, Shalabayeva. Procaccini, che avrebbe presentato una lettera al ministro in cui spiega i motivi per cui lascia l'incarico, è  il primo a fare un passo indietro in seguito a una vicenda sulla quale Angelino Alfano - di cui le opposizioni hanno chiesto le dimissioni - riferisce oggi sulla vicenda al Senato e alle 20 alla Camera. La sua linea - a sentire il discorso -  è chiara: sul caso della moglie kazaka del dissidente, espulsa con la figlia di 6 anni  il 28 maggio scorso, non era stato informato. Devono pagare i funzionari che hanno sbagliato. Attorno al nome di Alfano, vicepremier e ministro degli Interni, il Popolo delle Libertà ha fatto quadrato. Votare per le dimissioni di Alfano - che chiederanno venerdì le opposizioni - significa di fatto commissionare il governo Letta e far finire anticipatamente la legislatura. Il Pd è avvertito.

Alfano, il monsignore

Da Panorama del 10/4/2011

A volte, ad Angelino Alfano capita di canticchiare qualcosa del suo amato Francesco Guccini (l’icona musicale della sinistra è cara al cuore del ministro berlusconiano della Giustizia, che parecchi suoi concerti ha visto, che l’intera sua opera a memoria conosce). Icona di quelle toste, peraltro, con l’inno al Che, quello a Silvia Baraldini e persino, al rombo della Locomotiva anarchica, alla «giustizia proletaria». E dunque, spesso gli torna in mente Argentina, un pezzo molto amato di quasi trent’anni fa: «E allora, perché non andare in Argentina? Mollare tutto e andare in Argentina, per vedere com’è fatta l’Argentina…», e sarà per questo che in certi siti dove non è molto amato lo sfottono: «Don’t cry for me, Angelinooo…».

Canzone sull’immigrazione, questa di Guccini. Ma Alfano – non un tipo da ardori, piuttosto da caute sottrazioni – canta (che poi, essendo siciliano e di solida struttura democristiana, canticchia più che cantare), forse si commuove, ma certo non emigra. Al massimo a largo Argentina si può spingere, due passi, ma proprio due, dal suo augusto ministero, niente di più.

Perché il destino di Angelino (qualcuno lo dice, molti lo mormorano) non è certo quello di farsi gaucho vagante per la pampa, come certe figure borgesiane: non nel cavallo è il suo futuro, nel Cavaliere, piuttosto. Che, se un erede politico cerca, è in Angelino che quasi sicuramente l’ha trovato.

Ha molte qualità che piacciono a Silvio Berlusconi, il giovane ministro della Giustizia. Ma qualità che non vengono espresse con il rutilante vociare di molti altri berlusconiani, quella perenne opera pop di canti e danze che accende gli animi e scalda i militanti, per poi solitamente finire in un angolo sfiatata dalla frenesia, colpita dai fucilieri nemici. Molta fatica sempre, poca sostanza spesso. E Berlusconi, che per proprio giocoso carattere e pubblica ardimentosa passione una messa in scena pop a volte non disdegna, pure sa alla fine distinguere tra lo spettacolo con i suoi quotidiani mortaretti e l’effettiva convenienza.

Non avendo vizi da ostentare, Angelino non è neanche freneticamente alla rincorsa delle virtù: né confuso nel coro che canta le lodi, e che oltre il cantare non va; né sgomitante in prima fila all’ombra del Cavaliere, magari con la piccola tentazione di fare un po’ d’ombra al Cavaliere stesso, come di certi altri ministri si sospetta. Sul palcoscenico della grande avventura berlusconiana, lui è là da dove la scena tutta si domina, ma senza sulla scena predominare. È il monsignore che studia da papa, è il prelato accorto che ha appreso come insieme vadano dosati tempi e devozione, quello che sa che ogni papa regnante è sempre «felicemente regnante», condizione essenziale per garantire tale festevole serenità anche al regno di chi dopo di lui verrà. Come in certe foto in bianco e nero dei decenni passati: il pontefice al centro e la corte pontificia che occupa tutto lo spazio intorno, ma in un angolo c’è questa figura alta e magra (e il corpo fisico, oltre la convinzione politica, ben sostiene Alfano in tale immedesimazione) che osserva fuori dalla mischia. E un giorno, riguardando quella foto, qualcuno dirà: ecco il papa, quando era ancora solo monsignore…

Avendo impiantato il bipolarismo in Italia, combattuto epiche battaglie vuoi con i giudici vuoi con alcuni suoi alleati, Berlusconi non ama le complicazioni. Ma Silvio gioca sul carisma; per chiunque verrà dopo di lui il gioco avverrà sul tavolo della politica, che ha appunto complicazioni infinite e sottrazioni e mediazioni. Da questo punto di vista (punto di vista che i berluscones più vocianti detestano, ma che i berlusconiani più attenti considerano), Angelino Alfano ha una sorta di personale grazia. Da non intendersi come unzione divina del mito fondativo del Cavaliere, quanto come intelligenza delle cose e carattere personale.

E così, certo quella vignetta di Emilio Giannelli l’anno scorso sulla prima pagina del Corriere della sera aveva il necessario tratto dello sberleffo, eppure conteneva, se non una verità, un complimento. In una sola vignetta, i nove volti di Alfano e infine, dietro la maschera di Angelino, ecco il volto di Silvio. Quasi – e di nuovo sicilianitudine, e di nuovo democristianeria: non come prassi politica, ma come approccio alle cose della politica – un monumento pirandelliano al Signor Ministro: uno, nessuno e almeno nove.

Perché, infine, le qualità di Alfano si esercitano su un terreno che più minato non si potrebbe, in una zona dove quasi sempre il risentimento la spunta su tutto: quello della giustizia. Nei tempi supplementari dell’epica berlusconiana, tutto lì si trova e tutto lì precipita. È un camminare sul filo di una lama, pure bene affilata, è un offrire il petto quotidianamente a ogni possibile fucilazione: fosse ordinaria, fosse di cecchino. E infatti non è certo amato, il ministro Alfano, dai più duri tra i detrattori del Cavaliere.

«Angelino Jolie» lo chiamano, e in fondo mica tanto grave come offesa, non essendo Berlusconi propriamente tarato come Brad Pitt e non essendo la consorte solo una donna che piace e tace. La resistenza di Angelino, in tutti questi anni in cui via Arenula è sembrata a volte l’ultima trincea, il ridotto valtellinese del berlusconismo assaltato – in un percorso quotidiano tra Anm e Csm e Consulta e Quirinale e impazienze del premier e vigilanza continua dal fronte delle opposizioni – ha quasi del miracoloso: neanche le preghierine negli anni di scuola presso le Ancelle riparatrici avrebbero potuto tanto. C’è da immaginare Berlusconi, sanremese dato il momento, «si può dare di più!»; c’è da considerare il labirinto, con botole a tradimento, attraversato dal suo ministro.

Insieme alla proprie ire, il premier conserva sempre il suo fiuto politico. E l’intelligenza delle cose (piuttosto, a volte, intelligenza delle situazioni) del suo giovane delfino – che gli permette, per convinzione, e soprattutto per soddisfazione, di saltare la generazione dei Fini e di Casini, «Clinton e Blair alla loro età hanno già scritto le loro memorie» – un po’ deve averlo colpito. Davanti alle domande su questa sua predestinazione, Alfano alza le spalle, sistema la riga dei pantaloni, beve un caffè. «Non è sufficiente essere giovani per essere migliori, ma un po’ d’aria fresca è arrivata nelle stanze del potere» dice. «Quantomeno, Berlusconi ha messo le fiches nelle mani di una nuova generazione… Con i giovani ha compiuto un azzardo che gli ha dato risultati senza pagare dazio». Ma è indubbio che, di tanti giovani berlusconianamente innalzati («i porfirogeniti del Cavaliere» si direbbe, quelli nati nella sua personale porpora imperiale), Angelino Alfano gioca la partita principale e più rischiosa. Ma anche quella che farà infine pendere definitivamente il piatto della bilancia. «Ho solo l’ideologia antimafiosa» ripete il giovane ministro. Che sa di essere gradito al capo. Ma che trova consolazione pure in una statuetta della Madonnina con dentro l’acqua di Lourdes, posata a presidio della sua scrivania. Hai visto mai.

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