Anarchia in Libia, l’Occidente in fuga
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Anarchia in Libia, l’Occidente in fuga

Clan e tribù si fronteggiano in tutto il Paese, contribuendo a dividere la Libia in città-Stato indipendenti che non riconoscono né il nuovo parlamento né il risultato delle elezioni. Tantomeno ascoltano USA e UE

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Guai a sottovalutare il pericolo della crisi in atto in Libia. La spaccatura definitiva del Paese, ormai del tutto fuori dal controllo del governo del premier Al Thinni, è in atto da settimane e battaglie violente infuriano sia a Tripoli che a Bengasi e Misurata, per il controllo tanto degli aeroporti e delle autostrade, quanto di quartieri e intere città.

 

Queste battaglie sono parte di una lotta più ampia combattuta non soltanto tra gli islamisti e i loro avversari, rinfocolata se vogliamo dalle elezioni di fine giugno per il rinnovo del parlamento, che ha visto i partiti islamisti retrocedere sensibilmente ma nessuno emergere come forza dominante.

 

Con il riaffiorare della guerra civile, i Paesi occidentali hanno invitato i propri cittadini a lasciare la Libia immediatamente. Numerose sedi diplomatiche sono state evacuate e le auto di diplomatici britannici sono persino state mitragliate (a riferirlo è stato lo stesso ambasciatore Michael Aron).

 

Addirittura, gli Stati Uniti - memori dell’episodio del settembre 2012, quando il loro ambasciatore a Bengasi, Chris Stephens, fu ucciso insieme a tre funzionari - hanno scomodato droni, caccia militari e i marines di stanza a Sigonella, in Sicilia, per scortare i propri diplomatici a bordo di una lunga colonna di auto, che si è affrettata a raggiungere la Tunisia.

 

Intanto, sono sempre più frequenti le interruzioni delle forniture di acqua e di elettricità e anche la benzina - ironia della sorte per un Paese produttore di petrolio - scarseggia tanto a Tripoli quanto nel resto del Paese. Inoltre, numerosi ospedali sono stati saccheggiati e le medicine più comuni non sono più disponibili. Internet è offline in molte parti del Paese.

 

Il ruolo dell’ambasciata italiana

 

Il personale dell’ambasciata italiana a Tripoli è stato ridotto ma la sede resta aperta per favorire l’evacuazione dei nostri numerosi connazionali presenti in Libia, cento dei quali hanno già lasciato il Paese nel weekend. Fonti autorevoli riferiscono, inoltre, che le forze aeree italiane si sono rese disponibili a effettuare ponti aerei per evacuare il personale delle altre ambasciate europee.

 

Ciò nonostante, domenica sera da Bruxelles, dov’era in corso una riunione di crisi, è giunta una nota che riferiva come una decisione definitiva non sia ancora stata raggiunta - figuriamoci - e che, pertanto, il ritiro totale dei diplomatici UE dalla Libia non è ancora previsto.

 

Il motivo? Potremmo citare ilGuardianche non si perita a denunciare come “tale evacuazione sarebbe una grave perdita della faccia, in particolare per Londra e Parigi, che tre anni fa hanno condotto il bombardamento della NATO contro Gheddafi e poi hanno proclamato di aver consegnato la democrazia alla Libia”.  

 

Il voto inutile

A proposito di democrazia, l’esplosione di nuovi scontri tra opposte fazioni va letta proprio alla luce dei risultati delle urne: le elezioni parlamentari tenutesi il 25 giugno, dove hanno vinto i liberali mentre le forze islamiste sono state rigettate, hanno avuto come conseguenza il riaffiorare della rabbia settaria per via dell’incerto risultato.

 

Anche se non ancora definitivi, i conteggi delle schede assegnerebbero ai liberali oltre una cinquantina di seggi su duecento, mentre gli islamisti ne avrebbero ottenuti poco più della metà e gli altri sarebbero ripartiti tra federalisti e indipendenti. Sono proprio questi ultimi, i seggi “indipendenti” (circa ottanta), a costituire insieme un dubbio e un pericolo per la governabilità del Paese nel prossimo futuro.

 

Il voto per il rinnovo del parlamento, è bene ricordarlo, era aperto soltanto ai singoli candidati e non alle liste di partito, ragion per cui non sapremo esattamente quali raggruppamenti o coalizioni si spartiranno il potere, sino a che i nuovi deputati non siederanno gli uni di fronte agli altri nella nuova Camera dei Rappresentanti, a partire in teoria dal 4 agosto.

 

Novità importante è anche la nuova sede del parlamento trasferita a Bengasi, città simbolo della resistenza a Gheddafi, e non più nella capitale Tripoli, dove il Congresso Nazionale era stato oggetto di più assalti da parte delle milizie che controllavano la sicurezza della capitale. Una novità che certifica le divisioni nel Paese e il cambiamento dei rapporti di forza.

 

Ma il punto vero è la scarsa partecipazione: solo 630mila libici si sono recati alle urne, che corrispondono al 45% del milione e mezzo iscritto alle liste elettorali, contro il precedente 62% del 2012. Un risultato scarso, che documenta la sfiducia generale nei confronti del potere centrale.

 

Le forze in campo

 Al netto di tutto questo, non è facile raccontare chi combatte contro chi. Da un lato, a Bengasi è in corso uno scontro tra esercito e islamisti: qui i jet dell’aviazione del generale Khalifa Haftar stanno bombardando le milizie ribelli. Il generale Haftar, accusato da alcuni di aver messo in atto un colpo di Stato, ha dalla sua una buona parte delle forze armate e ha promesso di combattere gli islamisti per spingerli definitivamente fuori dal Paese. Per questo, ha promosso la cosiddetta “Operazione Dignità” alla testa del Libyan National Army.

 

Gli islamisti combattuti da Haftar sono invece guidati da Ansar Al Sharia, i “Partigiani della legge islamica”, una milizia salafita che pretende l'attuazione della Sharia in tutta la Libia, e che è emersa a seguito della rivolta anti-Gheddafi del febbraio 2011. Oggi si compone di più brigate di combattenti e ha base in Libia orientale, a Bengasi.

 

Ma questa divisione manichea tra islamisti ed esercito non rispecchia comunque la realtà, dato che in Libia esiste oggi una congerie di clan e tribù, i quali non si riconoscono nel generale Haftar, ma pretendono piuttosto di governare in maniera indipendente una singola area o città, come Misurata, Bengasi e la stessa Tripoli, sancendo quindi una vera e propria divisione della Libia in città-Stato.

 

Una di queste è la milizia di Zintan, città a sud di Tripoli, i cui principali avversari includono le brigate della città di Misurata e altre milizie vicine al Partito della Giustizia e Costruzione, un blocco politico-religioso vicino ai Fratelli Musulmani. Nato come un ombrello per 23 milizie tra Zintan e le Montagne di Nafusa (Libia occidentale), il consiglio militare di Zintan è formato da cinque brigate, che si stanno dimostrando molto pericolose.

 

La Libya Revolutionaries Operations Room (LROR), invece, costituitasi ufficialmente con il compito di proteggere la capitale, è la forza di sicurezza destituita dal Parlamento dopo che i suoi membri hanno rapito l'allora primo ministro Ali Zeidan a ottobre 2013. Oggi una sua costola opera a Bengasi.

 

Il futuro prossimo

Insomma, al momento in cui scriviamo la regione della Tripolitania è una cosa e la Cirenaica un’altra, così come il Fezzan è un altro Paese ancora. I gruppi armati, non meno di una quindicina, si fronteggiano trasversalmente in tutto il Paese con le armi del vecchio arsenale del regime di Gheddafi.

 

Dunque la Libia, bombardata perché diventasse una democrazia sul modello poi attecchito in Tunisia, si va avvitando in una spirale che non può che portare a un collasso totale. Il rischio è concreto. Il collasso non potrà che evocare la responsabilità storica di chi, come gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, nel 2011 ha preferito sacrificare la stabilità dell’intera regione per favorire un evanescente progetto di democrazia all’occidentale. Un Occidente che ha già pronte le valigie e non ha previsto un “piano B” per salvare il popolo libico, presto vittima di un’ennesima crisi umanitaria ai confini d’Europa. Tutto questo, a meno di 500 chilometri dal nostro Paese.

 

 

 

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Luciano Tirinnanzi