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I 600 jihadisti arruolati nelle carceri italiane

Ecco quanti sono i detenuti a rischio terrorismo. Un esercito in (potenziale) crescita

Un violento? Ovvio. Un disadattato? Certo. Uno che in Francia non si era mai integrato? Anche. Ma soprattutto un ex detenuto. Il ritratto giudiziario di Chérif Chekatt, l’attentatore marocchino che l’11 dicembre a Strasburgo ha lanciato l’ultimo attacco in nome della Jihad, la guerra santa del fanatismo islamico, era chiaro come le vesti bianche che era solito indossare. Nella sua scheda si legge che Chekatt era stato condannato per reati comuni in Francia, in Germania e in Svizzera, e che era stato in carcere 27 volte, quasi una per ognuno dei suoi 29 anni.

Proprio per questo il suo nome avrebbe dovuto lampeggiare al neon, sui terminali delle forze dell’ordine e dell’antiterrorismo francesi: perché era assai probabile che in una di quelle prigioni Chekatt fosse stato avvicinato e convinto alla radicalizzazione. E si sa bene che quando un mujaheddin viene concepito e cresciuto in cella, quando ne esce ha un solo compito: colpire.

Esattamente come nel dicembre 2016 aveva fatto Anis Amri, il terrorista iracheno che aveva lanciato un camion contro un mercatino di Natale a Berlino: Amri era sbarcato come clandestino in Sicilia, poi si era messo a spacciare droga ed era stato radicalizzato proprio durante la detenzione all’Ucciardone di Palermo. E lo stesso è accaduto con Benjamin Herman, il cittadino belga che alla fine dello scorso maggio ha ucciso due poliziotte e un passante, a Liegi, continuando ossessivamente a gridare «Allah u’akbar» fino a quando altri agenti non l’hanno freddato: seguendo la stessa cattiva strada di Chekatt, anche monsieur Herman continuava a entrare in carcere per reati comuni, ma l’ultima volta ne è uscito con una nuova fede e un motivo per sparare.

La lista dei casi, in tutta Europa, è ormai lunga come la barba di Maometto, però continua a essere pericolosamente sottovalutata dagli inquirenti. Eppure in Francia come in Belgio, ma anche in Italia, o in Germania e nel Regno Unito, i servizi di intelligence ormai hanno ben chiaro che i luoghi più a rischio per il reclutamento di nuovi adepti al terrorismo non sono più le moschee o i centri islamici. Ed è vero che la Jihad continua a pescare nel mare di internet, dove le sue idee insistono a propagarsi con minacciosa generosità, però le polizie hanno comunque messo in campo strumenti informatici invasivi ed efficaci. Ma quel che oggi i livelli più alti dell’antiterrorismo europeo hanno capito è che i maggiori pericoli si nascondono nei penitenziari. Perché è qui che il brodo di coltura è più fertile. E che i controlli sono più complessi.

Tutti i Paesi europei, in realtà, hanno dato una stretta di vite sulle prigioni dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo e dopo quella del teatro Bataclan: i due peggiori attentati islamici messi a segno a Parigi tra gennaio e novembre 2015, e organizzati in parte da ex detenuti che si erano radicalizzati dietro le sbarre. In Italia il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha varato una politica di particolare attenzione nel 2009. Per il Dap, però, quella dei potenziali terroristi è una nebulosa assai difficile da interpretare, tanto più nella composita galassia dei 60 mila detenuti oggi ficcati a forza nelle 190 straboccanti prigioni italiane. Tra loro, gli stranieri sono 20.300 e gli islamici appena 8 mila, ma il 42 per cento dei reclusi proveniente da Paesi musulmani (in tutto 10 mila) non dichiara alcuna fede religiosa. È possibile che questo avvenga per evitare discriminazioni, il sospetto però è che possa essere anche un mezzo per eludere i sistemi contro la radicalizzazione.

I reclusi per terrorismo internazionale, un reato che da noi è stato introdotto tra 2015 e 2016 e affronta in particolar modo lo jihadismo, oggi sono una settantina, in gran parte in attesa di giudizio. Sono divisi nelle quattro carceri «specializzate» di Bancali (Sassari), Nuoro, Rossano Calabro (Cosenza) e Asti. Vivono confinati nei reparti ad Alta sicurezza di «tipo 2», dove vigono regole un po’ meno dure di quelle cui sono assoggettati i boss mafiosi, seppelliti nelle sezioni di «tipo 1». Anche gli «As2», così vengono definiti in gergo i terroristi islamici veri o presunti, in teoria non possono avere contatti con altri reclusi. Malgrado questi limiti, accanto a loro ci sono altri 600 detenuti che in prigione sono stati radicalizzati, cioè avvicinati e convinti in qualche misura alla guerra santa dell’Islam.

Il loro numero è in crescita rispetto alla fine del 2017, quando erano 506; ed è quasi doppio rispetto ai 365 del dicembre 2016. In carcere i sospetti radicalizzati vengono sorvegliati in base a tre diversi standard di allarme: alto, medio e basso. Alla fine del 2017, quelli considerati al livello più rischioso erano 242, contro 150 di livello medio e 114 di livello basso.

Ma come può avvenire la radicalizzazione, malgrado limiti e controlli? Le vie di Allah sono infinite. E corrono soprattutto grazie alla scarsità delle risorse destinate da tutti gli ultimi governi al nostro sistema penitenziario. Il carcere di Bancali, che in teoria è una moderna struttura di massima sicurezza inaugurata solo nel 2013, ospita 336 agenti e 411 reclusi, 25 dei quali imputati o condannati per terrorismo di stampo islamico. Ma i poliziotti dovrebbero essere 71 di più. E infatti le aggressioni ai loro danni sono frequenti. L’ultima risale al 6 dicembre: un detenuto islamico ha distrutto la cella e poi ha lanciato pezzi di termosifone contro i poliziotti, chiamando i compagni all’insurrezione. «Il nostro direttore si divide tra Sassari e Nuoro» lamenta Antonio Cannas, delegato del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria «e da settembre siamo anche privi della figura fondamentale del comandante. Insomma, ci sentiamo abbandonati dallo Stato. Qui mancano agenti, ispettori, sovrintendenti».

In questa situazione, diffusa negli istituti di pena, si fanno miracoli per evitare i contatti fisici tra i detenuti per terrorismo e gli altri: «Ma quelli all’As2 sono al quarto piano e continuano a gridare in arabo dalla finestra» aggiunge Cannas. «Che sappiamo di quel che dicono? E come facciamo a impedirglielo?». Anche per questo si stima che tra le mura di Bancali, negli ultimi due anni, almeno una ventina di detenuti comuni si sia convertita all’Islam: il primo pare sia stato Vulnet Maqelara, un macedone che in prigione si fa chiamare Karlito Brigande in omaggio al suo eroe, il protagonista del film Carlito’s way. È l’avanguardia di un esercito che cresce. I motivi sono tanti. A Bancali, come in tante altre prigioni italiane, mancano le visite di un imam ufficiale. È un vuoto che dietro le grate lascia campo libero al proselitismo degli imam «fai-da-te», che diffondono un Corano colorato di aggressività e divulgano tra i compagni una visione dell’islam funzionale alla radicalizzazione. L’isolamento, la frustrazione e il senso di rivalsa fanno il resto: sono il substrato culturale che si trasforma in terreno fertile per le idee più violente. Un giusto passo avanti era stato compiuto con un protocollo siglato nel 2015 tra il ministero della Giustizia e l’Ucoii, l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia.

L’accordo prevedeva l’ingresso di imam accreditati negli istituti di pena, per dare ai detenuti musulmani un’assistenza religiosa controllata. Ma ancora oggi gli imam dell’Ucoii sono una decina in tutta Italia. Così gli agenti, che quasi mai sanno qualche parola d’arabo, si limitano a scrutare e indicare (vedere il riquadro a sinistra) i segnali di presunte conversioni. Detenuti che si mettono a pregare cinque volte al giorno. Barbe che si allungano e si colorano d’arancione. Voci che scoprono toni solenni. Vestiti che cambiano e tendono al bianco. Il rifiuto di avere a che fare con le donne agente. E un callo sulla fronte, che ne denuncia l’ossessivo sbattere contro il pavimento nella preghiera: i musulmani la chiamano zebiba, acino d’uva. Sulla sua foto segnaletica, anche Chekatt aveva quella macchia rossastra sotto l’attaccatura dei capelli. Nessuno, evidentemente, l’aveva notata.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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