Le 50mila truppe fantasma di Baghdad
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Le 50mila truppe fantasma di Baghdad

Perché la corruzione nell’esercito e le lotte settarie impediscono la creazione di un’istituzione forte, capace di pacificare l’Iraq

Per Lookout news

Quando si affronta il difficile tema dell’Iraq, quando si analizzano le cause che hanno portato questo Paese al collasso e quando ci si chiede in che modo una parte della popolazione possa aver intrapreso la rivolta armata, non si può non considerare tra gli imputati l’esercito iracheno e la sua scellerata gestione da parte delle istituzioni e delle stesse forze armate.

 Se da un lato dobbiamo, infatti, rimarcare come la ricostruzione dell’Iraq sia stata affidata a una classe dirigente inadeguata, dall’altra è bene ricordare che gli alti comando dello Stato Islamico provengono in larga parte dallo Stato Maggiore del fu esercito di Saddam Hussein, e che parte delle milizie jihadiste sunnite che oggi terrorizzano la Mesopotamia sono in realtà ex militari che hanno disertato per unirsi alla causa del Califfato. Perché?

 Due sono le ragioni principali: la marginalizzazione dei sunniti dalla politica irachena e la corruzione dilagante in risposta al vuoto politico creatosi dopo l’intervento anglo-americano che ha destituito il regime. Tutto ciò oggi trova nuovi riscontri in un’indagine interna al governo iracheno, che svela l’esistenza di “truppe fantasma” tra le forze armate.

 Le “truppe fantasma”
Il dato è preoccupante: secondo fonti autorevoli del governo, esisterebbero ben 50.000 nomi falsi sul libro paga dell’esercito, per lo più riferibili a soldati che hanno disertato o sono stati uccisi nei recenti combattimenti, i cui stipendi non solo continuano a essere pagati ma vengono dirottati sui conti di migliaia di ufficiali corrotti.

 Questa pratica era in parte già nota negli ambienti militari e, per descrivere questo malcostume, si faceva riferimento al termine “soldati fantasma”. Nominativi che, pur non esistendo o non essendo mai stati segnalati come deceduti alle amministrazioni, ricevevano puntualmente i loro salari.

 In un comunicato dell’ufficio del primo ministro Al Abadi, si legge che l’indagine è iniziata quando sono stati effettuati gli ultimi pagamenti degli stipendi, presumibilmente quelli di ottobre. Dopo che i funzionari del governo hanno riscontrato tali macroscopiche incongruenze, secondo le autorità irachene le retribuzioni sono state fermate.

 “Nel corso delle ultime settimane, il primo ministro ha dato un giro di vite per portare alla luce i soldati fantasma e arrivare alla radice del problema", ha detto il portavoce di Baghdad, Rafid Jaboori.

 L’involuzione della politica irachena
Ciò nonostante, le istituzioni di Baghdad restano espressione di una politica corrotta e divisiva, che dalla caduta di Saddam Hussein in avanti ha premiato unicamente la comunità sciita e cancellato la struttura sociale creata dal partito socialista Baath, di cui il dittatore fu il principale esponente.

 Nel 2004, a seguito dell’invasione anglo-americana, il protettorato occidentale aveva promosso la formazione in Iraq di un governo provvisorio, a capo del quale era stato nominato inizialmente Ayad Allawi, primo ministro di fiducia degli Stati Uniti, a cui erano seguiti Ibrahim al Jaafari nel 2005 e Nouri al-Maliki l’anno successivo. Tutti esponenti sciiti.

 È con Al Maliki in particolare che, dal 2006 al 2014, si rafforza l'entourage sciita al governo e si marginalizza progressivamente l'élite sunnita. Anche e soprattutto all’interno delle forze armate, da sempre spina dorsale delle istituzioni irachene.

 Questo fatto ha inevitabilmente generato pericolose tensioni interconfessionali tra le due anime dell’Islam e contemporaneamente sgretolato la struttura sociale che il partito e il regime precedente avevano creato. Mettere all’angolo i sunniti iracheni, che costituiscono quasi la metà della popolazione totale irachena, non è però stata una soluzione equa né tantomeno una scelta lungimirante.

 La contrapposizione sunniti-sciiti
Come noto, Al Maliki ha lasciato da pochi mesi il potere in favore di Al Abadi, sull’onda della guerra scatenata dai sunniti dello Stato Islamico contro Baghdad. Come primo atto distensivo, Al Abadi ha promosso un governo inclusivo anche delle componenti sunnite e curde della società. Ma ormai era troppo tardi. I più radicali tra i sunniti erano già scesi in guerra, confluiti in buona parte nello Stato Islamico.

 Così, l’Iraq si è ritrovato di fronte a un Paese sempre più nettamente diviso tra il nord sunnita e il meridione sciita, con parte delle risorse economiche drenate dagli insorti e uno spaventoso dilagare della corruzione tra gli organi dello Stato, che non hanno saputo fare altro che arricchirsi alle spalle di un sistema degenerato, mentre il PIL nazionale diminuiva.

 Anche per tale motivo, molti uomini hanno risposto alle sirene del Califfato, che prometteva giustizia sociale e la rivalsa dell’Islam sunnita, a discapito di un’istituzione marcia nelle fondamenta ed eterodiretta dall’Occidente.

 È anche in questo modo che l’esercito iracheno, rimasto senza obiettivi e motivazioni forti, si è sgretolato di fronte all’avanzata dei miliziani sunniti e non ha saputo contenere l’insurrezione. Le forze di sicurezza si sono fatte cogliere di sorpresa dall’offensiva militare di quest’estate, che ha comportato per Baghdad la perdita del controllo di enormi porzioni di territorio, arrivando a vedere la nascita di uno Stato nello Stato.

 Gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari cercando di ricostruire l’esercito iracheno, ma gli errori compiuti e l’assenza di un vero progetto di riorganizzazione politica hanno minato fin dall’inizio le possibilità di normalizzare il Paese e risanare le sue principali istituzioni.

 Quando la guerra sarà finita, che ne sarà dell’esercito iracheno e del nord sunnita? A questa domanda, prima che ad altre, la politica irachena e la coalizione internazionale dovranno dare risposta, per evitare nuove tragedie.

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Luciano Tirinnanzi