Paul Stanley: io, i Kiss e la vita oltre la maschera
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Musica

Paul Stanley: io, i Kiss e la vita oltre la maschera

Un estratto dall'autobiografia: il periodo nero di una delle band più longeve del rock (live a Verona l'11 giugno) e i provini con Slash, Edward Van Halen e Richie Sambora

Paul Stanley, cantante e chitarrista dei Kiss, nonché principale compositore della band, si racconta nell'autobiografia edita da Tsunami Edizioni: Dietro la maschera, la mia vita dentro e oltre la musica. Di seguito, un estratto dal libro verità. Siamo nel 1982 e le cose per i Kiss si sono messe piuttosto male...

Mentre ci si preparava al prossimo disco, Creatures of the Night, non furono molti i produttori di serie-A che vennero a bussare alla nostra porta. Anzi, a dire il vero, alcuni che avevamo contattato non ci hanno mai nemmeno richiamati.

Alla fine, nell’estate del 1982, organiz­zai un pranzo a L.A., la città in cui avevamo deciso di registrare il disco, con un certo Michael James Jackson. Ci incontrammo in un ristorante chiamato Melting Pot, su La Cienega Boulevard angolo Melrose. Come venni a sapere in seguito, Michael non aveva alcuna esperienza col rock, anche se aveva appena lavorato con Jesse Colin Young, fondatore degli Youngbloods, una band che aveva collezionato delle hit negli anni ’60. Chiacchierando del più e del meno, Michael disse, “Ciò di cui avete bisogno, ragazzi, è di scrivere delle canzoni di successo”.

Oh Gesù, come mai non ci ero arrivato prima? Cazzo, geniale.

Ma il tizio mi piaceva, nonostante quella sparata infelice. Era piuttosto in­troverso e intellettuale, e abbiamo iniziato ad andare d’accordo. Per di più, pur non essendo del tutto sicuro che fosse la persona giusta in grado di offrirci qualcosa dal punto di vista musicale, ci serviva qualcuno. Sapevo bene che Gene e io stavamo attraversando un periodo in cui ci era pressoché impossibile in­teragire a livello creativo, in quanto nessuno dei due era disposto a scendere a compromessi con le idee musicali dell’altro. Avevamo quindi bisogno di avere un intermediario in studio, una figura imparziale che avesse l’ultima parola.

Gene e io non scrivevamo più canzoni assieme. Michael suggerì di coinvol­gere degli autori esterni che lavorassero con noi. Io proposi di chiamare Bryan Adams, che aveva firmato una hit minore con Jim Vallance, “Let Me Take You Dancing”. Anche se su quel brano la sua voce era stata un filo accelerata e sem­brava quella di una ragazza, pensavo che avesse una marcia in più. Gli pagammo un aereo per raggiungerci a L.A., e alla fine Bryan lavorò con Gene e ne uscì “War Machine”.

Con Ace fuori dai giochi, iniziammo a far circolare nell’ambiente la voce che eravamo in cerca di un nuovo chitarrista con le palle. Tra gli altri, facemmo un’audizione a Steve Farris dei Mr. Mister, al grande chitarrista blues Robben Ford, e a Steve Hunter. Richie Sambora, che faceva parte di una nuova band emergente, i Bon Jovi, arrivò in aereo dal New Jersey per tentare il colpo. Non era ancora il musicista consumato che oggi tutti conosciamo, e infatti non l’abbiamo preso. La cosa divertente è che anni dopo gli ho sentito dire che in realtà quel posto non gli interessava davvero, perché in realtà lui mirava ad una band con sonorità un po’ più blues.

Prima di tutto, è già difficile credere che sia volato fino in California per fare l’audizione con i KISS solo perché gli piaceva il pranzo che servivano sull’aereo; in seconda battuta, i Bon Jovi hanno fatto un sacco di gran belle cose, ma non è che nella mia collezione di dischi abbiano una posizione di rilievo accanto ad Howlin’ Wolf, per così dire.

Un’altra persona con cui avevo fatto quattro chiacchiere era questo giovane ragazzo amabilissimo che si chiamava Saul Hudson. Mi disse che sua madre era stata la sarta di David Bowie e che i suoi amici lo chiamavano “Slash”. Aveva una buona reputazione ed era un tipo interessante, ma sembrava davvero troppo giovane. Gli chiesi quanti anni avesse. “Ne faccio diciassette il prossimo mese”, mi rispose.

Io avevo appena compiuto trent’anni, e Gene aveva il doppio dei suoi anni. “Sai”, gli dissi, “sembri un ragazzo a posto, ma penso che per te un ingaggio come questo sia troppo prematuro”. Gli ho fatto i miei migliori auguri, ma mi rimase impresso perché era davvero cortese e spontaneo.

Alla fine della fiera, su Creatures of the Night gli assoli sono stati suonati da un sacco di chitarristi diversi. Scegliemmo di provarli così, sul campo, per testa­re come se la sarebbero cavata e cosa avrebbero tirato fuori da un determinato brano propostogli sull’unghia. Un giorno ci raggiunse in studio anche Eddie Van Halen, aveva sentito dire che cercavamo un chitarrista. Ascoltò quello che avevamo fatto fino a quel momento, incluso un assolo di Steve Farris sulla title-track. “Wow, perché non scegliete lui?”, ci chiese Eddie. Ne era rimasto colpito. In realtà, avevamo già provato con Farris, ma l’amalgama non era perfetta.

Eddie era molto infelice in quel periodo, mi chiamò anche a casa un certo numero di volte. Ne aveva un po’ le palle piene, e volle saperne di più sul pro­getto dei dischi solisti dei KISS. “Perché l’avete fatto?”, mi chiese. “Perché ad un certo punto avete sentito il bisogno di staccarvi e fare i solisti?”. Anche se non mi raccontò per filo e per segno cosa stesse accadendo, era evidente che quel suo forte interesse avesse qualcosa a che fare con ciò che stava succeden­do alla sua band, visto che in quel periodo c’era un po’ di maretta. Sembrava cercare delle risposte da me, solo che non si capiva mai bene quale fosse la domanda precisa.

 Scrissi le canzoni “Creatures of the Night” e “Danger” con Adam Mitchell, un musicista che aveva fatto parte della band canadese dei Paupers. In prece­denza Adam aveva collaborato con un chitarrista di nome Vincent Cusano, e pur non avendo Adam quel che si dice un’alta considerazione di Vinnie come persona, ce lo presentò come un cantante-compositore di grande talento e ag­giunse che secondo lui il suo stile chitarristico poteva essere proprio il tassello mancante per i KISS. Era una scena che si sarebbe poi ripetuta spesso – la gente menzionava il talento e l’abilità di Vinnie, ma non avevano mai cose buone da dire su di lui a livello umano. Hmmm.

La prima volta che Vinnie ci raggiunse in studio, iniziò da un assolo, e mentre lo eseguiva si piegò sulle ginocchia. Fu una delle cose più ridicole che io abbia mai visto. Non è il genere di atteggiamento da tenere ad un’audizione. Ab­biamo avuto l’immediata sensazione che avesse in sé qualcosa di poco piacevole – aveva un aspetto strano e costantemente sfuggente – ma ci trovavamo tra l’in­cudine e il martello, e proprio Vinnie finì col suonare su molti brani dell’album.

Creatures lo abbiamo realizzato pervasi da un senso di shock e dalla consa­pevolezza di sentirci ormai persi. Quell’album era una dichiarazione di intenti chiara e netta, volevamo ritornare in pista a tutti i costi. Eric era di nuovo carico, questa era l’occasione che aspettava da molto tempo. Si mostrò decisamente più felice durante l’intero processo di registrazione.

Un pomeriggio, si presentò in studio un gruppetto di bambini piccoli con quelli che presumo fossero i loro padri, e Gene li fece entrare tutti in sala d’in­cisione. Si radunarono attorno ad un microfono. Erano lì per cantare il coro di un pezzo.

Che diavolo è questa storia? A quanto pare, Gene aveva fatto una specie di tacito accordo con un pro­duttore di Hollywood – questo tizio avrebbe mandato i suoi figli con i figli dei suoi amici a cantare un coro su una canzone dei KISS, mentre Gene avrebbe avuto in cambio delle raccomandazioni per alcune piccole parti in qualche film.

Ma stiamo scherzando, cazzo? Ero furioso. E non solo per il fatto che Gene non si fosse nemmeno preso la briga di chiedere un mio parere. Ci stava bellamente sputtanando, compromet­tendo il nostro album per il proprio esclusivo vantaggio. E mi offendeva doppia­mente che cercasse di strappare dei ruoli cinematografici in quel modo. Avevo studiato recitazione molto prima che a lui venisse anche solo l’idea di entrare nel mondo del cinema – a dire il vero, a quei tempi, mi aveva detto di non essere per niente interessato a recitare. Per me, il percorso era d’obbligo: prima si doveva studiare recitazione e poi fare audizioni per cercare di ottenere delle parti. Quello era il modo “giusto” di fare le cose. Gene ovviamente la vedeva in modo diverso. Ci si era semplicemente buttato a modo suo, da leccaculo.

Se cammini dietro ad un elefante, finirai col pulire le sue cagate.

Il mio tempo libero a L.A. lo trascorrevo perlopiù con Donna Dixon. Ho investito tanto nel mio rapporto con Donna, e questo perché lei riusciva ancora a tenermi a debita distanza – nonostante avessimo comunque un rapporto soli­do e affiatato. Quel suo atteggiamento schivo non faceva che accentuare la mia vecchia mania compulsiva di considerare una relazione solo come una sfida da superare. Anche se stavamo insieme, mancava qualcosa – e io cercavo dispera­tamente di capire cosa fosse. Ero impressionato dalla sua bellezza, la portavo in palmo di mano, la veneravo, per me lei stava su di un piedistallo – che presto si rivelò la posizione più noiosa e meno sexy in cui una donna possa trovarsi. Mio padre, ad ogni modo, avrebbe approvato.

Finite le registrazioni di Creatures, passai comunque gran parte del resto dell’anno a fare avanti e indietro tra L.A. e New York, pur di vedere Donna. Anche lei veniva spesso a New York, e quando era in città stava nel mio appar­tamento. La sitcom televisiva Bosom Buddies venne cancellata molto presto, e così fece un provino per il film Doctor Detroit. Subito dopo quel provino, iniziò a ripetere troppo spesso quanto secondo lei Dan Aykroyd, il protagonista del film, fosse un genio. Pensai subito che fosse un giudizio un po’ esagerato.

Donna cercava un nuovo consulente finanziario, perciò le presentai Howard Marks. Howard aveva una pancia esagerata e portava sempre i pantaloni sot­to lo stomaco, tenuti su con le bretelle. Non che fosse insolito, ma il giorno in cui lo incontrammo ho avuto l’impressione che si fosse scolato qualche drink di troppo già di prima mattina. Stava pranzando alla sua scrivania quando siamo arrivati. Fece a Donna tutto un lungo discorso su quanto è opportuno rispar­miare per il futuro e quanto sia importante la pianificazione finanziaria, e dopo questa lunga dissertazione, si alzò in piedi e iniziò a camminare verso un tavoli­no in un angolo del suo ufficio, con in mano il vassoio che conteneva gli avanzi del suo pranzo e i suoi tovaglioli sporchi. Quando si alzò – sembrava quasi di vedere la scena al rallentatore – vidi le sue bretelle a penzoloni. Doveva averle fatte scivolare giù dalle spalle per mettersi comodo, lì seduto a mangiare alla scrivania. Mentre attraversava la stanza, i calzoni hanno cominciato a scivolargli giù piano piano finché non caddero sul pavimento.

Howard guardò verso il basso, lanciò il vassoio in aria, afferrò i pantaloni e strillò, “Oh, mio Dio!”. “È tutto normale?”, mi chiese Donna.

Lei ottenne la parte in Doctor Detroit, e io andai a farle visita sul set a Chi­cago per portarle in dono un anello di diamanti – ma le ho detto subito che per me non era un anello di fidanzamento. Tra l’altro, la nostra relazione stava attraversando una fase di stasi; ad entrambi sembrava mancasse qualcosa. Ma non volevo perderla, e feci quel passo perché non volevo che mi lasciasse.

A volte, Donna usciva di scena e non la sentivo addirittura per giorni e gior­ni. D’un tratto smise di alloggiare da me quando capitava a New York, e poco prima di Natale trovai una pelliccia nuova nell’armadio. Disse che l’aveva presa dal reparto guardaroba di qualche spettacolo a cui stava lavorando. Di lì a poco, mi prese alla sprovvista parlandomi del fatto che non era mai stata sola e che aveva bisogno di spazio. Le spiegai che a me non andava per niente di essere uno dei tanti che uscivano con lei, e che tanto meno mi andava di dividerla con qualcuno. Per quanto le domande rimaste senza risposta fossero tante, e anche se si era creata sempre più distanza tra di noi, lasciammo cadere l’argomento e non l’affrontammo più per un po’.

Poi tra le sue cose notai una piccola T-shirt con scritto sul fronte “Mar­tha’s Vineyard”. Martha’s Vineyard? Quando mai era stata a Martha’s Vineyard? Forse era proprio quella la risposta alle sue improvvise sparizioni – forse. In ogni caso, non la tempestai di domande perché non ero sicuro di voler scoprire la verità. E comunque, quando qualcuno si comportava in maniera sconsiderata o disonesta, non faceva che rafforzare quello che già pensavo di me stesso.

Questo è ciò che mi merito.

Se solo potessi fare in modo di piacerle davvero...

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Gianni Poglio