Opere liriche in chiave postmoderna: i furbetti del librettino
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Opere liriche in chiave postmoderna: i furbetti del librettino

Mantova trasformata in Las Vegas, Violetta con ballerine di lap dance, Falstaff in una cucina anni Cinquanta... Il bicentenario verdiano fa esplodere la polemica sulle regie eretiche

"Lui è un latin lover, l’altro un killer spietato, lei una vergine, l’altra una puttana, e poi c’è lui, il perfido gobbo". Riassunto in chiave pop di Rigoletto. Comparve tempo fa sul retro di copertina di un dvd contenente l’opera verdiana, rivisitata col solito alibi del postmoderno, ovvero il diritto a mischiare codici e linguaggi: fumetto, musical, lirica.

E sulle scene, da stagioni, è la stessa musica con indignazione crescente dei sostenitori dell’ortodossia operistica. La trilogia mozartiana è stata catapultata nel Bronx, Richard Wagner con i suoi cigni e le sue divinità è finito ai giorni nostri o a metà Ottocento (il Lohengrin che ha inaugurato la stagione scaligera). Del bussetano, in occasione del bicentenario, si sta rivisitando il rivisitabile: a Londra Alfredo è un nerd timido e impacciato, a New York la citazione del trio canaglia Frank Sinatra-Dean Martin-Sammy Davis ha fatto ribattezzare l’opera Rigoletto Rat Pack; alla Scala prima c’è stato un Falstaff che si muoveva fra cucine di formica, dopo un Nabucco dove ogni riferimento biblico è finito nel cestino, ebrei ed egiziani sono in vestiti anni Quaranta (regia di Daniele Abbado, figlio di). Addio al passato, come canta Violetta, niente più costumi dorati, palazzi principeschi alla Franco Zeffirelli e animali in scena.

E qui si ritorna al postmoderno, gioia e delizia del presente operistico. O, se si preferisce, si può rispolverare la teoria del confine mobile: il limite spostato sempre più avanti, tanto da renderlo evanescente. Peter Brook, maestro della regia, ha sempre sostenuto che "non bisogna tradire l’autore ma neanche il pubblico". Quando Verdi (il più rimaneggiato in questo periodo) scrisse i suoi lavori, la gente andava in teatro con le vivande e i palchi spesso diventavano, col buio, licenziose alcove vellutate. Oggi gli spettatori, siano essi under 30 o canuti, hanno negli occhi tv, rete, cinema e un mondo in accelerazione. Diverso è il loro immaginario. Da qui il cambio di linguaggio, come spiega uno che del postmoderno è stato assertore e poi critico, Angelo Guglielmi: "La musica è strettamente legata a vecchie parole e, proprio perché quelle non sono modificabili, si ricorre ad altri accorgimenti costruendo il racconto in maniera imprevedibile. È una sorta di correttivo per rendere l’opera più comprensibile e partecipata. La si fa saltare nel tempo, in alcuni casi la si abbassa. Ma i veri amanti, la sognano a occhi chiusi, la sentono, hanno la loro versione dentro e raramente si sentono offesi da una rivisitazione forte, mentre è importante agganciare un secondo tipo di spettatore, quello che non la conosce".

L’importante è non snaturare l’anima di un’opera, è la tesi di Robert Carsen, regista iconoclasta se giudicato col credo della tradizione, geniale se con sguardo contemporaneo. E non fare i "furbetti del librettino" pur di far tornare i conti, spesso in rosso, dei teatri e vendere più biglietti. Perché con i 390 milioni di sovvenzioni governative, cifrona in sé ma poca cosa per mantere certi carrozzoni impostati su gestioni parastatali, ecco che fra i teatri è partita una concorrenza da discount della musica. È la spending review dei teatri a domandare ai registi messinscene più agili o invece è l’ansia di cancellare la retorica drammatica? A Genova il Carlo Felice è andato a rispolverare fondali di vecchie opere, destinati forse al macero, e ne ha fatto una regia-puzzle: un pezzo di Tabarro, un altro di Bohème e di Andrea Chénier per l’ennesimo Rigoletto da celebrazioni verdiane.

"L’unica regola da non violare è raccontare bene la storia, è ininfluente se nel farlo la reinterpreti e persino la tradisci. Qual è il centro, il senso, il punto focale? A noi registi i teatri in concorrenza fra loro chiedono una lettura nuova. E c’è un perché: il repertorio è limitato, Mozart, Verdi, Puccini, Wagner... Salvo rare eccezioni, sono poche decine di titoli a vedersela. Dunque devi offrirmi qualcosa di diverso, di artistico però": chi parla è Damiano Michieletto, regista poco più che trentenne con un’agenda fitta e richieste da festival e teatri. A luglio metterà in scena Ballo in maschera a Venezia dell’ubiquo Verdi; l’ha pensato in stile elezioni: "È la crisi di un individuo pubblico che non riesce a gestire la propria vita privata alla vigilia della campagna elettorale".

Certo che è dura per i puristi digerire simili riletture, anche se dovrebbero ricordarsi dell’errore di Rigoletto, che per difendere la virginale figlia Gilda la tiene chiusa in casa col risultato che la fanciulla finisce per essere gabbata dal primo farabutto incontrato (in chiesa, naturalmente). In nome della difesa filologica si può cioè rinunciare a parlare col presente? E trasponendola in altro periodo si snatura l’opera o la si rivitalizza? Per alcuni il cambio semantico aiuta alla comprensione, per altri la nega. Ma forse il punto non è neppure questo, a sentire le parole di Andrea Tagliapietra, professore di storia delle idee e filosofia a Milano, convinto che l’errore sia "presentificare" tutto: "Con la caduta del Muro, la fine dei due blocchi e delle ideologie, si è registrata un’enorme perdita di attenzione per la storia. Solo l’attualità ha senso, non si accetta l’idea che si possa vivere diversamente dal presente. L’errore è credere che una tragedia di Sofocle in versione tip tap o un Amleto musical siano una facilitazione, un modo per parlare a un pubblico vasto. Certo, è più difficile comprendere l’opera che ti pone di fronte alla profondità del tempo obbligandoti a un’immedesimazione, a un esercizio di fantasia, a uno sforzo psicologico, piuttosto che ambientare Rigoletto a Las Vegas. Si tende ad assolutizzare il presente e a ricostruire un passato rassicurante".

"Attualizzare invece è indispensabile" spiega Cristiano Chiarot, sovrintendente della Fenice, ostile alle strumentalizzazioni dei puristi contro le regie moderne volute solo per risparmiare. "Gli allestimenti in fondo pesano poco, 6-700 mila euro l’anno sui 33 milioni di budget, e le coproduzioni spesso sono più onerose. Noi preferiamo farci le cose da soli e programmare piuttosto più recite. Quindi è inutile fare polemica sulle regie moderne: ricostruisco l’antico come lo vedo io, basta che non si usino gli stereotipi, cattivi vestiti da nazisti e i buoni di bianco, o che non si ricorra agli effettacci, come le scene di sesso hard pretestuose. Per il resto tutto è lecito, purché si rispetti il messaggio dell’opera". Non si ferma Chiarot, rinnega operazioni museali che non sarebbero piaciute agli stessi compositori: "Mozart, Beethoven, Verdi, Wagner... gente che guardava avanti. Facciamolo anche noi".

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