Marracash live all'Home Festival
Davide Carrer/Ufficio Stampa
Musica

Marracash live all'Home Festival: l'intervista

Ieri il rapper alla kermesse di Treviso. La spiegazione del successo dell'ultimo album "Status" e un appunto sulla nuova direzione nel mondo hip hop

L’arrivo di Marracash all’Home Festival di Treviso è esplosivo. Il concerto di ieri sera rientra nello "Status Tour 2015", la tournée che ha confermato - in tutte le sue date - il grande successo dell’ultimo disco del rapper. A dirla tutta, il pubblico è eterogeneo: si passa da ragazzi che bevono birra o il cocktail Lynchburg Lemonade di Jack Daniel’s a signori di mezza età che non ti aspetteresti mai ad un live del genere. La sensazione è che il tanto dibattuto ampliamento della cultura hip hop sia veramente arrivato ad un punto di non ritorno. Ne abbiamo parlato con Marracash (all’anagrafe Fabio Rizzo) in camerino, poco prima del suo live…

Il tuo ultimo album, “Status”, riesce a comunicare molto; denuncia ma non solo. Secondo te che cosa sta generando in chi lo sta tuttora ascoltando?
È un album che a nove mesi di distanza secondo me ha avuto un grosso impatto. Una cosa interessante è per me vedere che anche gli altri album americani usciti quest’anno (penso tra gli altri a Kendrick Lamar) seguono la stessa tendenza di "Status", ossia quella di non cercare disperatamente il pop, ma anzi chiudersi, rivendicando l’identità dell’hip hop e delle proprie radici. Io riscopro me stesso nel mio disco. Mi fa piacere vedere che ho colto quella che - se vuoi - è una tendenza mondiale.

Che quindi colpisce anche l’Italia...
Esatto, vedo che anche nel nostro Paese sono usciti altri dischi su questa scia, come quello di Fabri Fibra (molto chiuso nel genere) o di Gué Pequeno. È bello vedere che, comunque, c’è movimento: è la conferma che gli artisti si captano a vicenda.

Ti senti responsabile per quello che scrivi e canti? Hai un pubblico molto ampio…
Il mio pubblico, però, è molto eterogeneo: non è così giovane. Molti ragazzi che mi seguono sono in quella fascia che va dai diciotto ai venticinque anni, che secondo me è la più interessante. A quell’età i ragazzi mantengono ancora una fantasia e una grande voglia di interessarsi alle cose che non sono praticamente “della vita”. Quando hai trentacinque anni lavori, hai una famiglia, un figlio, e non hai molto tempo per pensare ad altro. A venticinque invece sì.


Prendi appunti di continuo. Quanto conta per te l’ispirazione quando devi scrivere un pezzo?
Conta molto. È legata alla sfera dell’intuizione che mi viene dovunque (parlando, andando in giro, vedendo un cartellone pubblicitario, leggendo un libro, guardando un film, ecc). E allora me lo appunto sul cellulare: mi succede spesso in giro. Poi, invece, c’è una parte più razionale in cui raccogli varie idee e linee che - vuoi o non vuoi - finiscono ad unirsi con un tema comune e allora a quel punto in studio collego i puntini. Trovo il tema della canzone, lo sviscero, trovo il ritornello e lo sviluppo con tutto quello che è nato da un’intuizione.

In cosa è più diverso il Marracash di oggi da quello di “King del Rap”? La tua evoluzione rientra nell’evoluzione della cultura hip hop nel nostro Paese?
Sono cambiate molte cose: mentre "King del Rap" era più pensato come un disco “classico” (che aveva tutte le varie sfere possibili: un pezzo per il club, uno per la strada, un singolo forte), con “Status” mi sono focalizzato su uno stato d’animo un po’ più oscuro e ho lavorato molto sull’aspetto musicale del disco. Secondo me c’è stata un’evoluzione nel mio discorso ed è quella che voglio portare avanti.

E il mondo del rap italiano invece come sta cambiando?
È cambiato parecchio. La cosa più assurda è che si sia spostato molto nel pop. È lampante. Però ci sarebbero davvero troppe cose da dire.


Recentemente hai detto che “la politica è morta e non c’è niente da dire che non sia noioso e banale”. Quindi perché senti il bisogno di continuare a cantare e scrivere? Cosa cerchi facendo quello che fai?
Sono domande che ogni tanto mi pongo anche io, nel senso che ogni tanto mi dico: “Io sto qua, faccio musica, sono appagato da quello che faccio, però al tempo spesso mi abbatto”. Da una parte penso che se resto qui, nel nostro Paese, è perché comunque certe cose mi fanno incazzare. E se mi fanno incazzare vuol dire che ci tengo, anche se non lo voglio ammettere. Quindi finisce che alla fine se resto qui è perché ho ancora voglia di raccontare. Voglio stare qui a vivere tutte queste cose, e a volte anche subirle. Però alla fine bisogna darsi uno scopo nella vita. E sicuramente questo non è il posto migliore dove godersi la vita, in questo momento storico. Alla fine c’è un tipo di politica diversa, fatta delle opinioni delle persone. È bello trovare gente che si rispecchia in quello che dico: vedo che smuove qualcosa. Un effetto penso che lo abbia, anche se comunque non lo faccio per questo: lo faccio più che altro per me stesso.

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Giovanni Ferrari