Mario Biondi: "Io e miei musicisti, marziani nell'era della musica prefabbricata"
@marcoshermes
Musica

Mario Biondi: "Io e miei musicisti, marziani nell'era della musica prefabbricata"

Il rapporto con la sua voce e un album, Brasil, analogico e suonato come negli anni Settanta. The Voice sarà a Panorama d'Italia il 14 giugno a Napoli

La voce è la sua carta d’identità. Quando Mario “The Voice” Biondi canta, è come se pronunciasse forte e chiaro il suo nome, un nome che suona familiare in tutto il mondo, dove Big Mario, da Catania, è un mito. Perché quelle note, così basse, intense e profonde, le prende solo lui. Note che sono diventate un marchio di fabbrica al servizio del soul del jazz, del rhythm and blues e della musica brasiliana (l’ultimo album è per l’appunto Brasil). Lo intervistiamo alla vigilia di un tour europeo che lo porterà in Ucraina, Austria, Serbia, Slovenia, Croazia, Scozia, Svizzera e Inghilterra (il 5 luglio lo show londinese). 


Quando ha intuito che quel timbro vocale così speciale sarebbe diventato la sua identità artistica? 

Tardi. La voce è un miracolo strano. Quando suoni uno strumento, pigi un tasto e sai perfettamente quale suono emetti. Con le corde vocali una nota si può “prendere” in duecento modi diversi, ma centrarla in pieno con un’intonazione al cento per cento è un lavoraccio infernale. Da ragazzino scimmiottavo per imparare, ero circondato da cantanti che raggiungevano tonalità acute e cristalline senza alcuno sforzo. Io, invece dovevo impegnarmi tanto, fare molta fatica. 


Suo padre era un tenore? 

Sì, papà Giuseppe era un tenore, cantavamo insieme otto ore al giorno. Ovunque. In casa, in auto, per strada. Era molto pignolo, spaccava il capello in quattro. Lui prendeva il Re di petto con la massima naturalezza, io già con il Sol e il La dovevo combattere. Per molto tempo non ho capito perché la mia voce mi facesse disperare, poi è diventato tutto chiaro: io, vocalmente, sono un basso naturale e, quando hai questa caratteristica, la voce si forma e si mette in posizione tra i venticinque e i trent’anni. Sono decisivi fattori fisici come la conformazione dell’epiglottide e la grandezza delle cosiddette “false corde vocali”. A vent’anni, invece, un tenore è già un tenore.


Dietro il successo di una canzone c’è sicuramente la melodia, ma poi a far la differenza è l’interpretazione vocale, quella che incide un tatuaggio emotivo in chi ascolta. 

Cito tre italiani che hanno timbriche straordinarie, uniche al mondo: Claudio Baglioni, Fabio Concato e Pino Daniele. A proposito di Pino: io ho fatto il militare ad Avellino e nei giorni di permesso andavo a Napoli dove c’erano tanti ragazzi per strada, incluso un venditore di sigarette di contrabbando che non dimenticherò mai, che avevano il suo stesso identico timbro (l’imitazione è irresistibile; ndr). Ecco, l’intuizione geniale di Pino è stata utilizzare una timbrica nazional popolare per metterla al servizio al servizio del blues, del jazz, e della fusion. Un capolavoro d’arte.  


I consensi che riscuote fuori dall’Italia sono anche figli della scelta di cantare in inglese. Un dettaglio che i discografici italiani non presero bene all’inizio.

Beh, il refrain della case discografiche era sempre lo stesso: ma no cosa fai, da italiani non si può essere credibili cantando in inglese. Ci sono questioni insormontabili di pronuncia e di sound… Com’è andata a finire? Che Burt Bacharach, alla fine di un concerto, mi ha detto: you are fabolous, you have a great voice. Poi, ho suonato dal vivo e inciso in studio con Al Jarreau e sono salito sul palco con una delle mie band-mito: gli Earth Wind and Fire. Quando mi hanno chiamato in scena per cantare con loro quel capolavoro che è After the love is gone, mi sono presentato con le braccia in alto e i pugni chiusi. Come Rocky Balboa. 

Il suo ultimo album Brasil, nonostante il titolo, non suona però come un mero omaggio alla musica brasiliana. 

In effetti credo che il titolo crei qualche misunderstanding: è un disco brasiliano nel senso che è stato registrato in Brasile con musicisti brasiliani, ma dal punto di vista del sound ha uno spettro più ampio. Ho voluto fare un album analogico, con un approccio anni Settanta, dove l’elemento umano è fondamentale. Io adoro i miei musicisti, perché hanno passione. Tutto quel che c’è nelle mie canzoni, in studio e in concerto, è suonato davvero, senza trucchi tecnologici. Questo è il motivo per cui ragazzi che mi accompagnano sono considerati dei marziani. 

In che senso?

Viviamo in un’era di musica prefabbricata. In concerto, sempre più spesso, appaiono controvoci preregistrate, effetti miracolosi e persino un programma, Auto-Tune, che “aggiusta” la voce mentre canti. In pratica, è un intonatore.  Non fa per noi. Io e i miei musicisti ci divertiamo ad andare sul palco “nudi e crudi” perché adoriamo l’adrenalina di essere davanti a un pubblico così come siamo, senza rete. 

Le piacerebbe incidere un disco con i suoi otto figli? 

Beh alcuni sono già coinvolti nella musica. Zoe, la più grande  e Marica, la terza in scala, hanno già fatto le coriste con me sia in studio sia in concerto. Anche Marzio ci sa fare e poi c’è Ray che suona batteria, pianoforte e chitarra. Ha dieci anni e mi chiede spesso quando potrà iniziare a suonare la batteria con me. Al momento ha una sua band che fa le prove nella mansarda della nostra abitazione. Ogni tanto, quando alzano il volume, fanno veramente un casino infernale… E io devo scappare di casa. 

Mario Biondi sarà ospite di Panorama d’Italia il 14 giugno a Napoli (Teatro Mercadante) e il 28 giugno a New York dove riceverà un premio dal direttore di Panorama, Raffaele Leone, come eccellenza dell’arte italiana nel mondo. 

Il tour italiano a dicembre: il 3 a Napoli, il 5 a Milano, l’8 a Sanremo, il 10 a Varese, il 12 a Torino, il 13 a Firenze, il 19 a Padova, il 22 a Bologna e il 27 a Roma.  

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Gianni Poglio