Disco music: la febbre che non passa mai
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Disco music: la febbre che non passa mai

Quarant'anni fa la disco si estinse per poi tornare più forte di prima. Perché quelle canzoni sono ancora nella colonna sonora della vita di tutti

Due dollari e cinquanta: il prezzo per entrare nell’esclusivo loft newyorkese di David Mancuso al 647 di Broadway, dove nei primi Settanta la disco music ha iniziato a spiccare il volo. Era un deejay ante litteram con un impianto stereo “tailor made” e avanguardistico, Mister Mancuso, uno che non si limitava a far ballare i suoi ospiti mettendo banalmente un disco dopo l’altro. Mancuso creava esperienze sonore per serate uniche e speciali andando a pescare canzoni e ritmi negli anfratti della discografia ufficiale. Brani black nel segno del ritmo e dell’energia, interpretati da artisti e band semisconosciuti, esattamente quel che le major non promuovevano e le radio non mandavano in onda.

Come Soul Makossa di Manu Dibango, uno dei primi pezzi “disco” di sempre, recuperato da Mancuso in un negozietto di vinili a Brooklyn, e diventato, prima, uno dei pezzi cult dei suoi party, e poi, un successo mondiale (ripreso anni dopo anche da Michael Jackson e Rihanna). “Nessuna barriera economica o razziale” era il mantra di Mancuso che nelle sue feste pretendeva una mescolanza totale tra poveri e vip milionari, tra bianchi, afroamericani, ispanici, gay, etero e trans. Una preview in scala ridotta (nel loft c’era posto per 300 persone) di quello che sarebbe diventata da lì a poco la disco music fever. 

Un fenomeno su scala mondiale perfettamente rappresentato nell’immaginario collettivo dall’iconografia dello Studio 54, il tempio 70’s della disco nella Grande Mela, tra luci stroboscopiche, mirror ball, paillettes, tacchi stratosferici, abiti luccicanti, divanetti color argento, bar rivestiti di specchi e stanze segrete popolate da vip come Liza Minnelli, Elton John, Grace Jones Andy Warhol, Salvador Dali. E poi, la micidiale Rubber Room, al terzo piano, con panoramica sulla pista da ballo. Esclusivissima, dotata di un bar hi-tech e di pareti rivestite da uno strato di gomma in modo da essere lavate facilmente, per eliminare le tracce degli abusi di cocaina, eroina e sesso. Lo scatto simbolo di questo regno della stravaganza dance è Bianca Jagger, la moglie di Mick, che attraversa la pista da ballo in sella ad un cavallo bianco… 

Cassa in battere, falsetti, violini, bassi roboanti, chitarre funky e testi disimpegnati: era questa la cifra stilistica della disco, un genere odiato snobisticamente dalla critica, ma che non è mai passato di moda e che, anzi, è l’origine, oltre che la fonte di ispirazione, di tutta la musica dance di ieri (Madonna) oggi (Daft Punk) e domani (vedi gli australiani Parcels). 

Lo spiega dettagliatamente La storia della disco music,il libro definitivo sul genere scritto da Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano (Hoepli).  “La disco ha stravolto tutti i canoni entrando nelle case della gente come alternativa alla musica rock e cantautoriale” racconta a Panorama Angeli Bufalini. Il medesimo approccio concettuale del guru del genere, Nile Rodgers, leggendario produttore e chitarrista degli Chic. “La disco revolution è stata caos, anarchia e liberazione sessuale: il suono e la voce di una scena underground che in una manciata di mesi ha conquistato e scardinato i meccanismi del mercato”. 

Le hit dei Bee Gees, i passi e il look di John Travolta nella Febbre del Sabato Sera, la sensualità, i sospiri e gli orgasmi di Donna Summer in Love To Love You Baby, il vocione carismatico di Barry White, gli acuti dell’androgino Sylvester in You make me feel: la disco è ovunque alla fine dei Settanta (persino negli album dei Rolling Stones), e non solo in America. Se ne innamorano gli svedesi Abba, il leggendario e italianissimo produttore Giorgio Moroder, Cerrone, in Francia e il discografico tedesco Frank Farian (regista del progetto Boney M). 

E in Italia? “Anche qui” racconta Angeli Bufalini “quel sound esplosivo entra nei dischi di Lucio Battisti, Renato Zero, Alan Sorrenti, Mia Martini, Rettore. Per non parlare di Mina che alla Bussola, in Versilia, apre uno dei suoi ultimi show di sempre con Stayin’ Alive dei Bee Gees” spiega. “Da noi la disco viene osteggiata soprattutto dai media di sinistra che la descrivono come una musica priva di valore artistico e senza contenuti. Lotta Continua, come riporta libro, la definisce “il trampolino verso un piacere inteso come fine e non come terapia”, mentre Il Manifesto scrive: “Il mito di Travolta è il volto nuovo con cui le multinazionali hanno deciso di aggredire i giovani”. 

Ma è in America che la disco music ha suoi più acerrimi nemici. E il 12 luglio 1979, al Comisey Park Stadium di Chicago accade l’inimmaginabile: migliaia di ragazzi incitati e aizzati dal conduttore radiofonico Steve Dahl, autore di una incessante campagna ‘anti disco’, bruciano migliaia di 33 e 45 giri del genere in un unico grande falò. “Alle spalle di quei facinorosi del rock c’erano l’industria discografica e le radio” sottolinea Angeli Bufalini “che detestavano il potere del terzo polo del music business, ovvero quello conquistato sul campo dai deejay che dalla consolle indirizzavano i gusti del pubblico. Da qui la necessità di delegittimare la musica da discoteca che di fatto stava surclassando il pop e il rock nelle classifiche”.

Così, dopo il rogo di Chicago, inizia un lento quanto inesorabile declino e la disco music scompare dai radar del business. Ma non dai cuori e dalla memoria del pubblico che tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta la riporta in auge come ai tempi d’oro. “Perché quelle canzoni, piaccia o meno, sono nella colonna sonora della vita di ciascuno di noi. Per sempre". Parola di Nile Rodgers.

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Gianni Poglio