Agnes Obel
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Conversazione con Agnes Obel, pianista e cantante danese. Un talento unico, lieve e notturno: una rivelazione. Su Flair, in edicola con Panorama

Si contano sulle dita di una mano le icone musicali “made in Denmark”. L’ultima “big sensation” rispondeva al nome di Aqua, improbabile quartetto pop dance di fine anni Novanta passato alla storia per un tormentone-filastrocca noto come Barbie Girl. Poi, un lungo silenzio da Copenhagen e dintorni. Fino al debutto, in punta di piedi, nel 2010, di Agnes Obel, 33 anni, austera e talentuosa autrice di trame musicali raffinatissime ed eteree. Il suo successo (500mila copie in Europa dell’album d’esordio, Philarmonics, disco di platino in Belgio, Francia e Danimarca) è una sorprendente anomalia nel music business di questo periodo. Canta, suona il piano e occasionalmente si fa accompagnare da un violoncello e un paio di violini. La sua è una musica senza tempo, fatta di suoni ipnotici, ammalianti.

«Non accendo mai il radar per captare il sound del momento», racconta a Flair. «I miei dischi avrebbero potuto essere incisi negli anni Cinquanta come nei Novanta. Non hanno una valenza generazionale. Volutamente. Adoro quella musica che seduce, che avvolge e conquista lentamente, con dolcezza. Quando si parla di canzoni, non credo negli amori a prima vista. Anche nella vita vado piano. Forse sono in controtendenza rispetto alle accelerazioni dell’era digitale, ma il motto “è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente” (la citazione dal testo di Hey Hey, My My di Neil Young, ndr) non è il mio».  

I suoi punti di riferimento sono le complesse melodie di Joni Mitchell, l’estetica dei film di Alfred Hitchcock, gli scatti di Robert Mattlethorpe e Tina Modotti, l’eccentricità del geniale pianista francese, Erik Satie.

«Il successo improvviso», ricorda, «mi ha travolto via mail. A un certo punto del tour di Philarmonicsla mia posta elettronica è impazzita. Decine di richieste di concerti a Londra, Bruxelles, Amsterdam. Per non parlare delle recensioni del disco che uscivano a getto continuo sui vari siti musicali. Tutte positive, mi dicevano gli amici. Io, mi creda, non le ho mai lette. Ho paura dei giudizi. Le parole possono fare male».

No, non sono brani commerciali quelli di Agnes Obel, però, come sostiene lei, sanno sedurre. Il pubblico, certamente, ma anche registi, sceneggiatori tv e persino i guru dell’advertising: Just So è stata la colonna sonora di un noto spot della Deutsche Telekom, tre canzoni del primo album hanno accompagnato le immagini di Submarino, pellicola cult del regista danese Thomas Vinterberg, mentre il brano Riverside è stato scelto come tema guida per alcuni episodi di Grey’s Anatomy.

«Tutto vero, ma la mia popolarità, ne sono sicura, non è figlia dell’accostamento alla pubblicità o alle colonne sonore delle serie tv di richiamo. Mi piace pensare che le mie canzoni siano state scelte per la loro peculiarità. A volte per amplificare un’emozione o la forza di un’immagine non serve un ritmo ossessivo o una voce sguaiata. Si può sedurre con un sospiro o con le  note lievi di un pianoforte», teorizza sottovoce pochi giorni dopo aver concluso il secondo brillante album, Aventine, in uscita il 30 settembre (sarà poi  in concerto a Milano il 5 novembre, al teatro Martinitt).

Un disco hype non nella forma ma nella sostanza, finemente suonato e interpretato con uno stile inconfondibile che trasforma la voce in uno strumento tra gli strumenti. E con un titolo, Aventine appunto, che è anche un implicito manifesto di vita. L’ Aventino era il colle di Roma dove si ritiravano i plebei nei momenti di scontro frontale con i patrizi, Aventino è il termine che identifica l’abbandono del Parlamento italiano, nel 1924, da parte dei deputati che si opponevano al governo fascista…       

La conversazione con Agnes Obel continua a pag. 128  sul numero di Flair, in edicola con Panorama.         

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Gianni Poglio