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Ritratto di Rosalino Cellamare, in arte Ron.
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Ron: «I miei primi cinquant’anni di canzoni»

Dal provino di debutto ai tour con Francesco De Gregori e Pino Daniele. Il cantante e autore racconta a Panorama la sua vita sopra e sotto il palco, citando molti aneddoti inediti: come quella volta a Roma insieme a Renato Zero vestito da leopardo con tanto di baffi e orecchie pelose e Lucio Dalla ingessato dal collo in giù. «Ero accompagnato da mio padre. Mi voleva trascinare via. Pensava che fosse un mondo di pazzi».

Al primo appuntamento negli uffici di una casa discografica Rosalino Cellamare (in arte Ron) si presentò accompagnato dal padre alla fine degli anni Sessanta, uno di quei giorni che cambiano la vita per sempre, l'inizio di una carriera da autore, interprete e produttore che lo ha portato per cinque decenni a intrecciare il suo talento con quello dei più grandi artisti italiani di sempre. In studio di registrazione come sul palco. Dal leggendario tour, Banana Republic, con Lucio Dalla e Francesco De Gregori ai concerti nelle arene con Pino Daniele, De Gregori e Fiorella Mannoia, alla vittoria al Festival di Sanremo nel 1996 con Tosca.

Ron, Pino Daniele, Fiorella Mannoia e Francesco De Gregori nel 2002.

Cinquant'anni al centro della musica iniziati con una convocazione a Roma negli uffici della Rca. Ci descrive la scena?

Sembrava di stare su Scherzi a parte: io, sedicenne, e mio padre nella stessa stanza, insieme a Renato Zero travestito da leopardo con una tutina aderente una parrucca di pelo, i baffi e il naso nero di plastica. Venne a salutarci e papà rimase pietrificato. Voleva che ce ne andassimo: tentai di rassicurarlo, ma poco dopo arrivò un uomo su una sedia a rotelle, ingessato dal collo in giù. Era Lucio Dalla reduce da un brutto incidente sul raccordo anulare dove sfrecciava con la sua Porsche verde… Papà sbottò: «Ma questo è un mondo di pazzi». Non poteva immaginare che quel mondo sarebbe diventato la mia vita.

Il primo Sanremo con Nada nel 1970, poi il periodo della contestazione per chiunque non avesse la patente di cantautore impegnato. Lei come se l'è cavata?

Prendendo la mia dose di fischi e lattine. Ricordo un concerto al Palasport di Roma dopo il colpo di Stato in Cile. Misi in musica un testo di Pablo Neruda, cantai per due minuti in un silenzio di piombo, poi venni sommerso dalle urla dei presenti e mi fermai. In quegli anni sviluppai un'abilità pazzesca nello schivare gli oggetti che piovevano sul palco. Fu un periodo durissimo. Tra il pubblico c'erano tiratori scelti… Non era facile farsi voler bene come artista.

Che cosa resta oggi del mestiere di cantautore?

Poco o nulla, manca l'attitudine a mettersi davanti a un brano. Negli anni Settanta e Ottanta era difficile che nascesse una brutta canzone d'autore. C'erano artisti geniali cui ispirarsi e nel mondo succedevano cose importanti. Adesso che cosa racconti? La pandemia? A questo proposito, meno male che abbiamo il vaccino e il Green pass che ci hanno permesso di ricominciare un po' a vivere e anche di tornare su un palco, di guardare in faccia, sia pure con la mascherina, le persone.

Quando Rosalino Cellamare diventa Ron?

Nel 1980 con Una città per cantare. Fu un nuovo inizio perché a quel punto avevo imparato a comporre i testi e non solo le musiche. È stata fondamentale la spinta di Dalla e De Gregori che a un certo punto mi hanno detto: «Mò basta, adesso le parole delle canzoni te le scrivi da solo».

Come nacque il il tour con Pino Daniele, Fiorella Mannoia e Francesco De Gregori?

Da una telefonata di Pino. Mi disse che era venuto il momento di unire le forze per fare qualcosa di bello. Ed ebbe ragione perché quegli spettacoli sono stati pura magia.

Conferma che c'è un mazzo di rose per sua madre dietro la collaborazione con Biagio Antonacci?

Sì, confermo. Si presentò con un bouquet bellissimo. Allora faceva il carabiniere dalle mie parti (Ron vive a Garlasco in provincia di Pavia, ndr) e lo avevo notato un paio di volte su una camionetta troppo piccola per la sua altezza. Mia madre lo mandò da me e lui esordì spudoratamente così: «Guarda, io preferisco Fabio Concato, però vai benissimo anche tu». L'ho adorato da subito e infatti ho prodotto il suo primo disco.

Che effetto le fa il successo su scala mondiale dei Måneskin?

Mi hanno colpito fin dalla prima volta che li ho visti perché hanno la scintilla del talento puro, una presenza scenica incredibile e tanta personalità. Non è un caso che in sei mesi siano riusciti a conquistare platee come quelle inglese e americana dove noi italiani abbiamo sempre faticato per farci ascoltare.

Nel 1996 ha vinto Sanremo con Vorrei incontrarti fra cent'anni, una canzone lontana dagli stereotipi del bel canto all'italiana. Fu una sorpresa?

Non avrei mai pensato di vincere con quel pezzo, mi sembrava troppo complicato per il Festival. La sera della finale io e Tosca ce ne andammo al ristorante dopo aver cantato. A un certo punto ci vennero a chiamare di corsa e noi ci precipitammo all'Ariston ancora con i nostri bavaglioni sporchi di aragosta.

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Gianni Poglio