Ezio Frigerio
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È morto Ezio Frigerio: l'ultima intervista a Panorama

È mancato uno dei più grandi scenografi italiani. Dagli allestimenti della Scala ai lavori con Eduardo De Filippo e Vittorio De Sica, Frigerio è stato il più grande creatore teatrale italiano. Panorama lo aveva incontrato poche settimane fa. Ecco cosa ci aveva raccontato.

E' morto Ezio Frigerio, 91 anni, uno dei più grandi scenografi italiani, che ha lavorato con grandi registi dalla lirica, al teatro, al cinema: da Vittorio De Sica a Eduardo de Filippo, da Bernardo Bertolucci (per "Novecento") a Rudolf Nureyev.

Nel 1991 fu candidato all'Oscar per Cyrano de Bergerac, e vinse il César, ma il sodalizio più stretto fu probabilmente quello stretto con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano e con il Teatro alla Scala. Proprio alla Scala come costumista o scenografo ha firmato 32 spettacoli, di cui sette che hanno inaugurato la stagione. Spettacoli entrati nella storia del Piermarini come Simon Boccanegra, Falstaff, Lohengrin e Don Giovanni. Nel corso degli anni le sue produzioni sono tornate in cartellone 120 volte per complessive 774 aperture di sipario.

Panorama, poche settimane fa lo aveva intervistato per il settimanale cartaceo. Ecco cosa ci aveva raccontato.

Ad ascoltare Ezio Frigerio raccontare il suo Novecento lo si immagina tra le tigri di Mompracem o in un deserto dei Tartari. Oppure a sfuggire la linea d’ombra, come un personaggio di un romanzo di Joseph Conrad. Invece il nostro più grande scenografo, l’unico a essere stato chiamato in tutti i teatri del mondo, da Buenos Aires a Pechino, a 91 anni è nella sua casa di Erba in una mattinata di sole invernale a raccontare quella che ha definito «quasi un’autobiografia», Io sono un mago appena uscita per Baldini+Castoldi. Un viaggio avventuroso dai set dell’età d’oro del cinema italiano all’inaspettate viscere del Piccolo di Milano, dalla Russia sconosciuta fino all’Africa profonda. Un mondo di magia e illusioni che ricorda un poema dell’Ariosto.

Cominciamo dalla fine. Il libro si conclude così: «Hai vissuto a lungo, caro Ezio, il tempo di scoprire che sotto c’era un tranello».
Quale era il tranello?

«Quello di averci fatto credere di poter comunicare con la gente attraverso il teatro. Ed è stato svelato quando la cultura borghese è finita. Allora quel mondo è morto per sempre».

Eppure la Prima della Scala è sempre un grande evento.
«Oggi si assiste allo scempio dell’opera lirica. Anche se il pubblico si mette ancora in smoking e ci sono i corazzieri con l’elmo piumato, non sono più niente. Solo tristi burattini. Perché non si può fingere che si possa rinnovare qualcosa che non è più rinnovabile».

Racconta di un’infanzia benestante, fu davvero così?
«Ero un presunto ricco, direi. I miei almeno facevano di tutto per farlo credere. Avevamo tre automobili, ma poi in casa ci dicevano in continuazione di spegnere la luce per non consumare elettricità. C’era un bagno bellissimo, ma si usavano i giornali, non la carta igienica. E non c’era l’acqua calda. D’estate si trascorreva un mese in albergo a Cervia, perché passava Benito Mussolini e si poteva andare a salutarlo. Era una vita da ricchi e da poveri, un mélange. D’altronde il nonno era di origini miserabili, ma fece fortuna e molti soldi. I due figli, che non avevano voglia di fare nulla, si lanciarono nella politica fascista. Spesero tutto il patrimonio del padre e così siamo andati avanti gloriosamente fino alla fine del regime. Dopo le cose andarono molto male».

Suo padre venne arrestato?
«No, non ebbe avventure drammatiche. Tutto sommato era un brav’uomo. Il solito commerciante del paesotto che nel fascismo aveva trovato il suo posto comodo. L’ho adorato. Avevamo un rapporto speciale. Almeno finché non fui abbastanza grande per capire la Storia. Mi aveva ingannato con aquile, gradi e pugnali. Da allora mi fu impossibile stargli accanto. Diventai insofferente, non potevo più vivere e mangiare insieme. Me ne dovetti andare».

E sua madre Ester?
«Era una donna bellissima, ma non abbiamo mai avuto molti rapporti. Si occupava molto di se stessa».

Dopo la guerra dove andò?
«Ho fatto "l’innocente bandito" a Firenze: piccole truffe, niente di così grave. Anche se poi il mio capo si prese otto anni di prigione. Forse non eravamo così innocenti. Vivevo in un piccolo hotel dietro le Cappelle Medicee. Firenze, l’amata, era come per magia intoccata, i bombardamenti non fecero gravi danni. Invece vidi Milano con le rovine fumanti. Ma io non mi soffermavo nelle città, andavo in cerca delle bellezze dell’Italia».

Cita spesso Piero della Francesca come uno dei suoi maestri, perché fu così importante?
«Nel ’43, quando crollò il regime, andammo con la mia famiglia a Sansepolcro da uno zio. Fu mio padre a portarmi a vedere la Resurrezione. Davanti a quel capolavoro capii che si poteva parlare anche attraverso altri strumenti. Questo mi travolse. E per la prima volta mi venne il dubbio che ci fosse qualcosa d’altro oltre a Salgari».

Si sentiva Sandokan o Yanez?
«Ero Sandokan e Peppo Pontiggia era Yanez. In teatro inevitabilmente però ero il numero due, il Sandokan dei numeri due».

Ha lavorato anche con Eduardo De Filippo, che rapporto avevate?
«Era una persona speciale, ma anche un grande avaro. Mi contava gli agnolotti comprati a Milano per il figlio. Un giorno la tata mi raccontò che la chiamava per sapere quanti fossero. Aveva paura che durante il viaggio gliene mangiassi qualcuno. Ma lo si poteva capire, veniva dalla povertà estrema. Quando nacque lo misero nel cassetto di un comò di una pensione. Per me resta uno dei grandi geni italiani».

Quale era invece il limite di Vittorio De Sica?
«Il gioco. L’ho visto puntare cifre pazzesche. Nel 1961 spese in due sere 30 milioni di lire a chemin de fer. Impassibile. Era l’opposto di Eduardo, così duro, severo, chiuso. De Sica era un uomo aperto, divertente e divertito della vita. Se Eduardo quando parlava tirava fuori una perla e lasciava tutti incantati, Vittorio era una fioritura continua. Sotto il cappello a lobbia e il grande cappotto cammello batteva il cuore di un ragazzo».

Cosa pensava della sua vita bigama?
«Non l’ho mai capita, cose da italiano, diciamo così. Con la figlia Emi ebbi un lampo di amore leggero».

Ha amato molto?
«Sì, ho conosciuto l’amore e ne ho avuto sempre rispetto. Andando avanti mi accorgo che la gente non ha capito bene cosa sia un rapporto tra uomini e donne. Vedo coppie sfilacciate. Sesso e amore vanno strettamente insieme, altrimenti non è interessante. Non sono mai andato con una puttana».

Ha lavorato 50 anni con Giorgio Strehler, anche con lui è stato amore?
«Grande amore e grande dolore. Era inafferrabile, solo, senza amici. Aveva una natura feroce anche contro se stesso. Un egoismo spropositato, ma era un serpente incantatore. Ha sofferto molto e non ha mancato di fare soffrire gli altri».

Che vita aveva avuto?
«Non possedeva un passato. Era vissuto a Trieste, il padre lo aveva visto forse due volte in tutto. È stato un "uomo-teatro", la sua esistenza è iniziata quando ha calpestato il palcoscenico».

Come è riuscito a trascorrere tanto tempo accanto a lui?
«Non ha potuto cambiarmi. Se non fossi stato forte non ce l’avrei mai fatta, sarei scappato. Abbiamo avuto liti furiose, violente. Una volta ci siamo presi per il collo».

Quando è morto cosa ha provato?
«Per me era già morto prima. Artisticamente sapeva di aver concluso il suo ciclo. Mi ricordo che l’ultimo spettacolo, Così fan tutte, lo fece malvolentieri, a stento. Mi chiese una scenografia che sapesse di un tempo passato. Capivo che queste rimembranze ormai appartenevano a qualcosa che non esisteva più».

Le capita di pensare alla morte?
«Ci ho pensato molto quando ho avuto la disgrazia tremenda, e anche la fortuna, di avere una forte depressione. In quei due anni che la malattia mi ha straziato in tutti i modi, riducendomi a uno straccio, avevo tanta paura di morire. Poi ho acquisito il fatto
che esiste, l’ho accettata. In fondo non è poi una grande disgrazia».

Alla Scala per anni il suo posto è stato in platea il «18 N», quando è andato l’ultima volta?
«Sono quasi vent’anni che non ci torno più. Non sono stato neanche a vedere il mio ultimo spettacolo. Il primo fu Simon Boccanegra. Tutti dissero che era un capolavoro, ma io ho sempre avuto dubbi feroci. La Scala è stata la mia casa. Quando ci penso mi attraversano ancora molte, troppe emozioni. Mi viene da piangere. Lì ho realizzato gli spettacoli più importanti della mia storia».

Il suo è stato un lavoro molto complesso?
«Bisogna essere matti per farlo. È un mestiere duro, si deve conoscerlo bene, intuirlo, averlo nel sangue, negli occhi, nella vita».

Come è nata questa passione?
«Fin da bambino recitavo nella grande cantina di casa, il nostro rifugio durante i bombardamenti. Sistemavo le panche pesanti per fare il palco, appendevo strisce di carta per le scene, scrivevo le commedie e avevo un pubblico pagante. C’era anche il bar: una botte divisa a metà dove vendevo le spremute. Ecco, ho avuto anche il mio teatro, ho vissuto vite di mondi morenti. Dalla pittura alla letteratura, tutto è svanito lentamente con la fine del Novecento».

Cosa è rimasto?
«Mi pare poco. Ma forse va bene così, qualcosa di molto forte resterà».

Non le fa tristezza tutto ciò?
«Né tristezza, né allegria. È la vita».

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Terry Marocco