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Saw: Legacy arriva al cinema, il mattatoio è servito – La recensione

Ottavo e (forse) ultimo episodio della saga, diretto da Michael & Peter Spierig. Con il trash applicato all’horror e la predilezione per le seghe circolari

Il rozzo detective masticante chewin-gum pare uno sceriffo uscito da un western di Sam Peckinpah.

È brutale, becero e prosaico, peggiora le cose con la tendenza a fare il “fico”. I

nsomma uno poco simpatico e pure cattivo, che piace poco fin dall’inizio. Si chiama Halloran (Callum Keith Rennie), ha la pistola facile e conta più di qualcosa in Saw: Legacy (nelle sale dal 31 ottobre, durata 92’) che i gemelli australiani Michael & Peter Spierig dirigono con lo stesso piglio squamoso, grossolano e selvaggio che usarono nel 2003  per quel piccolo sci-fi-zombi-cult chiamato Undead prima di misurarsi, sei anni più tardi, con un cimento più impegnativo come Daybreakers – L’ultimo vampiro.

C’è un mistero che aleggia attorno a John Kramer

Ispettore a parte c’è dell’altro marcio, come si può immaginare, nel film. E forse il tipo peggiore neppure è Halloran. Perché di bastardi, questo ottavo e (forse) ultimo capitolo della saga inaugurata da James Wan, ne squaderna parecchi. Uno, ovviamente, è l’enigmista Jigsaw che, in quanto a efferatezze, ha poco da imparare da chiunque e molto da insegnare, anzi, a qualche ammiratore o addirittura a un discepolo cui lasciare l’eredità sua e del titolo.

Aleggia anzi un bel mistero attorno al leggendario John Kramer (l’altrettanto leggendario Tobin Bell), che si crede morto da un decennio (con tanto di autopsia consumata su di lui) e invece par disseminare segni inequivocabili di una sua sanguinosa renaissance ai limiti del sovranaturale: par exemple la ripresa del famigerato “gioco” e non solo quello.

Cinque furfanti, a cominciare da Jigsaw l’enigmista

Le vittime sacrificali stavolta sono cinque. Di varia estrazione ma tutte con molte canagliate da farsi perdonare: insomma, chi per un motivo, chi per l’altro i “prigionieri” Anna (Laura Vandervoort), Ryan (Paul Braunstein), Mitch (Mandela Van Peebles), Carly (Brittany Allen) e Edgar (Josiah Black) devono all’inflessibile censore Jigsaw delle spiegazioni e soprattutto quelle confessioni di malefatte che potrebbero salvar loro le vite.

Sforzo abbastanza inutile, peraltro, perché poi ci sono i famosi quiz dei quali venire a capo e risolto, magari, uno, se ne propone subito dopo un altro. Passando per fasi e ambienti successivi, porte che si aprono su inferni ulteriori cui pare non esserci fine.

La fine del film, ovviamente, c’è ed è vietatissimo svelarla. Non ne saranno estranei, per varii motivi, il detective antipatico accompagnato dal fido - poi non troppo come si vedrà - Keith (Clé Bennett), l’anatomopatologo Logan (Matt Passmore) e la sua assistente Eleanor (Hannah Emily Anderson), ciascuno nei propri panni e con qualche inevitabile digressione dal ruolo.

Attrezzi diversi per le macchine della morte

Così vanno le cose nel Saw numero otto. Dove spadroneggia, quale strumento elettivo, la sega circolare, ma non vi sono estranee attrezzature diverse come catene, collari d’acciaio, punteruoli, lame d’ogni risma, più banali armi da fuoco  o macchine a spirale rotante e ovviamente tagliente capace di frullare lo sventurato d’occasione. Tutti questi oggetti, poi, messi al servizio di marchingegni dinamici e ingranaggi capaci di affettare, stritolare, bucare o soltanto spaventare gli astanti con inflessibilità meccanica. E il mattatoio è servito.

Torture plateali, effetti clamorosi e occhi sbarrati

Ovvio che l’horror si mescoli allo splatter e la paura lieviti con le tensioni legate all’approssimarsi di eventi letali che sarà superfluo descrivere nei dettagli, lasciando all’appassionato il gusto della scoperta. Va detto, piuttosto, che tutta questa materia rutilante diventa tra le mani degli Spierig un’ottima applicazione trash ai generi di riferimento, nei suoi personaggi volutamente dozzinali e frettolosi – tagliati con l’accetta direi, se non rischiassi d’essere frainteso – nelle soluzioni narrative un po’ caotiche e qualche volta implausibili, in certe pagine che vivono nei paraggi dell’ironia, nella platealità delle torture e dei loro (a volte clamorosi) effetti. Tra occhi sbarrati e strilli di attori chiamati a comunicare terrore, ribrezzo e atroci sofferenze. Non male, nel complesso.

Per saperne di più

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Eagle Pictures, Leone Film Group, Ufficio stampa Napier
Il detective Halloran (Callum Keith Rennie, a sinistra) con l'altro detective Keith (Clé Bennett)

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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