​Ron Perlman film Don't look up
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Ron Perlman: l'uomo dai mille volti

È stato il monaco deforme ne Il nome della rosa, e lo avete visto anche in Alien, Conan e altri 260 film. È uno dei caratteristi più famosi di Hollywood, ma non ha mai avuto un ruolo da protagonista. Ora, a 71 anni, prova a salvare il mondo in Don’t look up insieme a Leonardo DiCaprio, Meryl Streep e Jennifer Lawrence. Lo racconta, in esclusiva, a Panorama.

Per molti anni quando ho iniziato a recitare ho interpretato personaggi con indosso una maschera, perché non mi sentivo a mio agio con la mia faccia. Finché un giorno, dopo i 40 anni, mi sono sentito finalmente libero di mostrare il volto davanti alla macchina da presa senza make up». Ron Perlman, 71 anni, racconta così il rapporto con il proprio volto per alcuni brutto, certamente inusuale e quindi cinematografico, che comunque molti spettatori riconosceranno più del suo nome, anche perché pur essendo apparso in tantissimi film, il ruolo che gli ha dato la celebrità è stato quello dove il viso era nascosto sotto il cerone rosso e le protesi demoniache di Hellboy. Caratterista con oltre 260 titoli in carriera, tra film, cortometraggi, doppiaggi di cartoon e videogame, ha ottenuto il successo in tv con La Bella e la Bestia, con cui ha vinto nel 1989 un Golden Globe, ed è apparso poi in pellicole come Il nome della rosa (dove era il monaco deforme Salvatore), Alien - La clonazione, Drive, L’isola perduta, Il nemico alle porte e il remake Conan The Barbarian.

Spesso ruoli di contorno, ma memorabili, come quello del colonnello Benedict Drask in Don’t Look Up, il film all-star di Adam McKay ora in alcune sale selezionate e in uscita su Netflix dal 24 dicembre: quando la studentessa di astronomia Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) e il suo professore scoprono che una cometa colpirà la Terra ponendo fine all’esistenza della razza umana, la presidente Usa Orlean (Meryl Streep) dapprima non dà peso alla richiesta d’aiuto, poi decide di affidarsi al piano del multimiliardario Peter Ishervell (Mark Rylance) per deviare il corpo celeste con una serie di cariche esplosive: affida la missione al militare in pensione interpretato da Perlman, che dall’alto della propria retorica militare è disposto a morire per l’umanità, «perché Washington ha sempre bisogno di un eroe».

«È stato un vero privilegio poter lavorare al fianco di un’attrice incredibile come Meryl Streep» dice l’attore a Panorama «e prendere parte a questa intelligente satira di Adam McKay». Non tutte le comparsate di Perlman però sono state di tale livello, l’attore ha spesso accettato anche tanti b-movie: «Non ho mai dimenticato un periodo della mia carriera, lungo forse tre o quattro anni, in cui non mi chiamava nessuno» racconta. «Così a un certo punto quando il telefono ha iniziato a squillare ho deciso di dire sì a qualsiasi proposta, perché mi piace essere impegnato. Penso che smetterò solo quando non mi reggerò più in piedi».

Diceva che ha iniziato ad amare la propria faccia solo dopo i 40 anni. E prima?

Da ragazzo guardarmi era un problema psicologico che mi provocava sofferenza. Camuffare il mio viso faceva svanire tutti i problemi e mi faceva sentire libero. Al punto che, come Lon Chaney (interprete negli anni Venti di film come Il fantasma dell’Opera, Il Gobbo di Notre Damee altri ancora, ndr), indossare una maschera è diventata la mia specialità. È per questo che Guillermo Del Toro a un certo punto mi ha chiamato per interpretare Cronos, prima ancora di Hellboy.

Quando ha capito che interpretare un personaggio poteva darle questi superpoteri?

La prima volta è stata al liceo, recitando in una pièce teatrale. All’improvviso, da ragazzino terrificato dagli altri sono diventato qualcuno che riusciva a esprimere il proprio desiderio di relazionarsi. Dopo quell’esperienza è diventata un’ossessione il desiderio di rifarlo, recitare si è trasformato in una droga. E ancora oggi per me questo lavoro è come una psicoterapia: entrando nella psiche di un tiranno, un benefattore, persino un serial killer sono in grado di capire meglio gli altri e dimenticarmi di me.

Don’t Look Up è una satira, ma è anche un film molto politico, in cui certo la presidente Usa non fa una bella figura. A lei interessa la politica, o come certi suoi colleghi preferisce non esprimersi?

Ho il privilegio di non essere una star, e quindi posso parlare liberamente, non ho niente da perdere. La politica ha iniziato a interessarmi da quando ho 50 anni, ma ho cominciato a esprimere ciò che pensavo soprattutto da quando è stato eletto George W. Bush. Da allora penso che i politici siano ancora più teatrali degli attori.

Ha recitato con tutte le star, a iniziare da Sean Connery ne Il nome della rosa. Che ricordi ne conserva?

Fantastici. Penso che Sean Connery sia l’ultimo degli uomini veri, l’ultima star del cinema.

In che senso?

Si guardi attorno: le star oggi sono ragazzini, destinati a durare poco. Non sono certo i miti con cui sono cresciuto io, come Clark Gable, Humphrey Bogart, James Cagney, Spencer Tracy o Robert Mitchum. Ma non è colpa del pubblico, piuttosto degli Studios che le pubblicizzano. Siamo passati da un’era in cui una star era qualcuno che volevi al tuo fianco se c’era una rissa in un bar a oggi, in cui al massimo puoi sognare di andare insieme a fare shopping.

È vero che non doveva interpretare il monaco Salvatore nel film tratto dal romanzo di Umberto Eco?

Pensavo di essere tagliato per il ruolo di quest’uomo deforme, per via della mia esperienza con pesanti make up e l’idea piaceva anche al regista, Jean- Jacques Annaud, ma fu costretto dalla produzione italiana a scritturare Franco Franchi. Che però ne fece di tutti i colori sul set e dopo tre settimane di riprese fu licenziato. Così chiamò me.

Lei ha lavorato anche con Marlon Brando ne L’isola perduta...

Ho un ricordo orribile di quell’esperienza. Il regista originale, Richard Stanley, che voleva girare un adattamento molto personale de L’isola del dottor Moreau fu licenziato e sostituito da John Frankenheimer, mandato dallo Studio, a cui non fregava nulla del film. E Brando era lì per via di Stanley, per cui iniziò a fare la guerra al sostituto.

Cosa ricorda di Brando?

Marlon per me era come un dio, la possibilità di recitare al suo fianco era un sogno. Ma ero anche curioso di osservarlo da vicino perché volevo capire come facesse a calarsi così in profondità nei suoi personaggi, come era avvenuto in capolavori come Un tram che si chiama desiderio, Fronte del porto e Il padrino. Riuscì a ridefinire il lavoro dell’attore. Anche se quando lo incontrai era già in uno stato di estrema prostrazione.

Perché?

Pesava ormai più di 150 chili, era devastato dal suicidio della figlia e dal fatto che il figlio avesse ucciso il genero e fosse in galera. Soffriva molto.

Crede che per diventare grandi artisti si debba soffrire?

Non lo so, ma se hai problemi nella tua vita normale l’arte ti offre sempre una seconda possibilità.

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Francesco D'Errico