Quentin Tarantino, segni particolari: fuori di testa
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Quentin Tarantino, segni particolari: fuori di testa

A pochi giorni di distanza si contendono il pubblico due film che hanno in Quentin Tarantino il regista (Django unchained) e in Joaquin Phoenix il protagonista (The master). Due grandi dello schermo che non si sono mai incrociati su un set ma che hanno in comune il piacere (e la consapevolezza) di correre fuori dai binari. Ognuno, in misura e per aspetti diversi, è il rappresentante di un mondo dove il caos ha cittadinanza

TARANTINO: "Ho del metodo nella mia follia"

Venti anni di carriera, quasi 50 di vita, una fama da rockstar: radiografia di un regista provocatore. Con una guida a Django unchained, film già record in America, dal 17 gennaio sugli schermi.

Al pari di un uragano, Django unchained , il nuovo film di Quentin Tarantino (sui nostri schermi dal 17 gennaio) ha scosso come al solito fondamenta e abitudini di Hollywood, riscrivendo anche la storia. Tre anni fa inBastardi senza gloria c’era stata la rilettura della Seconda guerra mondiale, con una squadra di ebrei vendicatori che scalpavano i nazisti e giustiziavano Adolf Hitler. Stavolta è l’ex schiavo Django trasformato in bounty hunter per potere uccidere i bianchi a pagamento.

In due settimane, il film ha incassato in America 106 milioni di dollari, ha al suo attivo una decina di premi già vinti mentre attende una pioggia di nomination agli Oscar (ai Golden globe sono state 5). Come d’abitudine, il film ha scavalcato la critica per diventare un avvenimento mediatico e mondano, un evento, non solo culturale. Non a caso lo chiamano «il circo Tarantino».

Quest’anno c’è poi la coincidenza di due anniversari che invitano a esplorare la fenomenologia di un regista unico, storicizzandolo. Ha 20 anni di carriera (primo filmLe iene, 1992) e sta per compiere 50 anni (il 27 marzo). Dice: "Mi sento al massimo della creatività. E penso che i miei film migliori saranno quelli dei prossimi 10 anni. Poi mi ritiro e faccio lo scrittore. Il cinema come lo intendo io, non è un mestiere per vecchi".

Django unchained è il suo settimo film (Kill Bill, diviso in due parti, lui lo considera uno solo). E nello stesso periodo Martin Scorsese ne ha diretti 9, Peter Jackson 10 e Christopher Nolan 8 in 14 anni. Ma Tarantino non si scompone: "I miei film sono pensati e sofferti a lungo. Non li ho mai affrontati alla leggera né sono mai stato, e mai sarò, una macchina da presa in affitto".

Ha ragione lui se tarantiniano è un aggettivo nei dizionari, così come felliniano, e se il numero delle sue biografie è doppio di quello dei film, inclusi titoli dal taglio accademico come Tarantino and philosophy, How to analize the films of Tarantino e, soprattutto, Tarantino ethics, psicoanalisi lacaniana e postmodernità, in vendita su Amazon a ben 130 dollari.

Tarantino insomma è paragonabile a una rockstar, più conosciuta degli attori che sceglie: anche se in Django unchained c’è Leonardo DiCaprio , in un inedito ruolo di schiavista carogna, la gente corre a vedere "il film di Tarantino". "Non è questione di vanità, ma di utilità: a differenza dei miei colleghi non sono ricattabile dai produttori e posso scegliere l’attore migliore per la parte senza dovere per forza pescare fra le superstar" dice il regista. Ai tempi di Pulp fiction riuscì per esempio a imporre il dimenticato John Travolta, che nessuno voleva più.

Tarantino è un paradosso vivente: è assolutamente originale, pur citando continuamente oscure pellicole del passato: più che di ricetta Tarantino qualcuno parla di "ricettazione Tarantino". Ride: "Gli artisti non citano, rubano» precisa fiero.

Tutto quello che pensa e fa è fuori dalle regole, ma "c’è del metodo nella sua follia". Quando il cronista è invitato sul set di Django, in una vera ex piantagione in Louisiana, gli è arrivata a casa la sceneggiatura del film. Mentre tutti i suoi colleghi la tengono segreta, inventando inchiostri a prova di fotocopie, lui ha preteso che fosse letta da chi lo intervistava in modo da porre domande pertinenti e sensate. Scrive ancora a mano, ricopiando poi con un solo dito sul computer. "È meglio, sono così lento che posso scegliere per bene le parole" spiega. "Mai andato a scuola di cinema, però molto al cinema" è il suo aforisma preferito.

È un completo autodidatta, non ha frequentato nemmeno il liceo, mettendosi presto a lavorare: prima come maschera in un cinema porno, poi come impiegato nel Video archives di Manhattan Beach, paga misera, 7 dollari l’ora, ma accesso gratuito ai titoli più famosi e a quelli più stravaganti. Non gli è mai passata la passione per i B-movie, di cui colleziona copie in 35 millimetri che per anni ha mostrato nel suo festival personale a Tucson, in Arizona, e oggi nel New Beverly, un cinemino di Hollywood che ha salvato dalla bancarotta.

È uno dei pochi registi che non solo ha il final cut, il controllo totale sul montaggio del film, ma anche una robusta percentuale sugli incassi. Proprio come un attore.

Ecco, questo è stato a lungo il suo grande cruccio: non essere mai stato considerato una faccia che "bucava". "Ma ora mi è passata" giura "non ho più il tarlo della recitazione". La critica da lui giudicata più fastidiosa, ripetuta anche per questo film, riguarda il suo amore per la violenza: "Lo ripeto da 20 anni e non ho cambiato una virgola, il sangue per me è solo un colore e la violenza cinematografica, operistica e coreografata, non si riverbera sulla vita reale. Comunque in Django c’è una differenza: frustate, stupri e assassini erano verità storiche per gli schiavi".

Ha molti amici e seguaci e qualche nemico storico. Il più accanito è il regista Spike Lee, che in passato ha stigmatizzato la sua disinvoltura di bianco nell’usare un termine politically incorrect come "nigger". In Django unchained viene ripetuto 147 volte ("Al tempo degli schiavi non esisteva la correttezza politica e l’eufemismo afroamericano"), ma Lee ha alzato il tiro: non andrà proprio a vedere il film, "perché offende i suoi antenati, trasformando un olocausto in un tema da spaghetti western".

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Marco Giovannini