Martin Scorsese, un ragazzo di 70 anni
(Photo: ANNE-CHRISTINE POUJOULAT/AFP/GettyImages)
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Martin Scorsese, un ragazzo di 70 anni

New York, 17 novembre 1942: nasce uno dei più grandi registi di sempre, autore di capolavori come Taxi Driver, Toro scatenato e Quei bravi ragazzi. Un uomo che affronta ancora il set e la vita con l'entusiamo di un debuttante

Scrivere di Martin Scorsese è una fregatura, almeno per me. Non solo perché, anche se arrivi a 50.000 battute, ti sembra sempre di aver dimenticato qualcosa di fondamentale o, peggio, di ricicciare quello che è già stato detto e scritto dai critici di mezzo mondo. Perché su Marty, come è soprannominato, è stato scritto l'equivalente di dieci Treccani, e non è finita qui.

Personalmente lo considero un genio assoluto (il top, insieme a Billy Wilder) ma allo stesso tempo non vorrei fare la figura di quello che inciampa nella lingua, intento com'è a celebrare un suo mito. Visto però che il 17 novembre il maestro compie 70 anni, ed è impensabile far passare sotto silenzio una ricorrenza del genere, ne approfitto per cercare di spiegare  perché, senza di lui, la storia del cinema sarebbe stata infinitamente più povera.

Intanto, ribadiamo l'ovvio: stiamo parlando di un pezzo da novanta, che dopo oltre mezzo secolo di lavoro ha ancora moltissimo da dire e la carica di un ragazzino. Il curriculum di Scorsese è impressionante per longevità (il suo primo grande successo, Mean Streets, risale al 1973; l'ultimo, Hugo Cabret, all'anno scorso) e qualità: nella sua filmografia ci sono come minimo tre capolavori assoluti, vale a dire Taxi Driver (1976), Toro Scatenato (1980) e Quei bravi ragazzi (1990). Film che si insegnano nelle scuole, e che non hanno avuto bisogno di messaggi ideologici e sponsor intellettualoidi per conquistarsi l'eternità. In queste pellicole il “cosa” non ha nessuna importanza, è il “come” che lascia annichiliti, il virtuosismo di Scorsese, l'avidità con cui cerca di ottenere il meglio dalla musica, i suoni, le luci, gli attori.

Prendiamo Taxi Driver, la storia di un uomo che, già traumatizzato dalla guerra in Vietnam, perde completamente la brocca solcando di notte le periferie marce di New York. Non è un granché come spunto: di pazzoidi giustizieri è piena la storia del cinema, soprattutto di quello di serie B. È però il modo in cui l'idea viene sviluppata a rivelarsi praticamente indimenticabile: la città che non dorme non è  mai stata così ostile, maleodorante, inospitale, e la parabola di Travis Bickle (Robert De Niro), partito per fare una strage di papponi e spacciatori, e assurto suo malgrado al rango di eroe cittadino, è intrisa di un sarcasmo che incanta.

Con la stessa originalità Scorsese racconta il mondo della malavita, soprattutto quella italoamericana. Mean Streets, Quei bravi ragazzi, Casinò: in questi film è unica la sua capacità di spogliare i criminali di qualsiasi carisma, descrivendoli come impiegati del crimine che tengono famiglia e, dopo aver scannato la vittima di turno, tornano a casa a farsi strigliare da mogli e amanti. Non hanno scelto di vivere così, semplicemente non conoscono alternative, e a nessuno osservandoli verrebbe mai in mente di ammirarli. Solo un uomo che in gioventù aveva seriamente pensato di entrare in  seminario poteva portare a questo livello la rappresentazione del  peccato senza rimorso, della redenzione sfiorata e mai raggiunta, di un  malinteso senso di giustizia che giustifica qualsiasi efferatezza. La grandezza di Marty sta proprio qui: più mostra la violenza, più si (e ti) convince che non serve a niente.  Anche in questo caso, comunque, non sono le azioni a fare la differenza, ma il talento visivo del regista e l'entusiasmo con cui cura anche i più insignificanti dettagli: una cravatta sgargiante, un sugo fatto a regola d'arte, un soprammobile pacchiano.

Ce n'è d'avanzo per entrare nell'Olimpo dei registi, ma Scorsese non è tutto qui, c'è molto di più. Per esempio il suo sconfinato amore per tutti i film, non solo i suoi. Da sempre in prima fila nelle battaglie per la tutela e la conservazione dei capolavori del passato, ha mantenuto un entusiasmo fanciullesco verso il primo e più grande amore della sua vita. Cresciuto in una famiglia modesta, dove non si trovava un libro a pagarlo oro, Marty fin da bambino ha trovato nella celluloide un filtro magico, che ha tramutato in cigno un anatroccolo malaticcio e insicuro.

Mi piace Scorsese anche perché non ha mai scordato un'altra sua grande passione, il rock, coltivata fin dal 1970, quando fece l'assistente alla regia di Woodstock, il documentario che vinse l'Oscar raccontando il raduno più indimenticabile della storia della musica. Poi sono venuti i tributi a The Band (L'ultimo valzer, 1976), Bob Dylan (No Direction Home, 2005), gli adorati Rolling Stones (Shine a Light, 2008) e George Harrison (Living in the material world, 2011).

Mi piace perché è un regista che giudica i suoi film senza mai farsi condizionare da quanto hanno incassato e da quale accoglienza hanno ricevuto. Ha spesso ripetuto che tra, quelli che ha girato, il suo preferito è il documentario Italoamericani, dedicato nel 1974 ai suoi genitori. Snobismo? Neanche per sogno: la verità è che quando si innamora di un'idea (come nel caso del criticatissimo L'ultima tentazione di Cristo) non sopporta l'idea di non poterla realizzare.

Mi piace perché, al contrario di tanti registi, ama gli attori con cui lavora, e li sa sfruttare al meglio: l'esempio più eclatante è De Niro, protagonista di tutti i suoi film più importanti e premiato con l'Oscar per Toro scatenato. Non è il solo comunque ad avere sul caminetto una statuetta conquistata grazie a Scorsese: è andata di lusso anche a Ellen Burstyn (Alice non abita più qui), Paul Newman (Il colore dei soldi), Joe Pesci (Quei bravi ragazzi) e Cate Blanchett (The Aviator), per non parlare di scenografi e costumisti. Martin, invece, per entrare personalmente negli annali dell'Academy ha dovuto aspettare fino al 2007, quando è stato premiato come miglior regista per The Departed, un bel thriller che però nella sua filmografia fatica a entrare nei primi cinque. D'altronde è più che comprensibile che i giurati, dopo decenni di inspiegabile e grottesco ostracismo, abbiano voluto rimediare a un vero e proprio scandalo dando a Scorsese ciò che gli spettava da almeno trent'anni, e facendolo premiare da tre leggende di Hollywood come Francis Ford Coppola, Steven Spielberg e George Lucas.

Mi piace Scorsese, infine, come mi piacciono tutti quelli che adorano il loro mestiere e, anche se gli devono fama e soldi, sanno che lo farebbero anche gratis. Ecco perché, quando si parla di lui, mi torna sempre in mente un aneddoto che mi ha raccontato mia moglie. A New York, nel 1999, era stata invitata a una preview di Al di là della vita, una di quelle proiezioni che le major organizzano per farsi un'idea, prima dell'uscita in sala, delle reazioni suscitate dal film in questione. Quando alla fine si sono riaccese le luci in sala, le è quasi venuto un colpo vedendo Scorsese in persona che girava sorridente in sala, chiedendo ai presenti la loro opinione. Senza bodyguard, senza press agent, senza nessuno. Solo lui, con i suoi occhietti vispi e il fuoco dentro.

Buon compleanno, Marty, e guai a te se non campi (e lavori) almeno fino a 200 anni.

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Alberto Rivaroli