Giulio Ricciarelli
Vivien Killilea/Getty Images for PSIFF

Il labirinto del silenzio: intervista a Giulio Ricciarelli, l'italo-tedesco da Oscar

Il regista esplora la Germania di fine anni '50, rivolta al futuro e tutt'altro che consapevole del suo passato nazista. Una pagina di storia sorprendente e poco nota, che rievoca i processi di Auschwitz e guarda all'Academy Award

Nella Germania di fine anni '50, in pieno miracolo economico, il termine "Auschwitz" era noto a poche persone né si conosceva (o voleva ricordare) l'orrore celato dietro quel nome. È questa la realtà sorprendente e sconcertante che ci mostra Il labirinto del silenzio, lungometraggio solido e denso dal 14 gennaio nelle sale italiane con Good Films, ancora in corsa per l'Oscar al miglior film straniero nella shortlist da nove titoli

Dietro alla macchina da presa c'è un tocco italiano: alla sua prima regia, c'è l'attore italo-tedesco Giulio Ricciarelli, nato in Italia ma trasferitosi presto in Germania. Sullo sfondo di eventi realmente accaduti, ordisce una riflessione personale su un periodo storico in cui gli individui guardavano avanti e alla ripresa con occhi fiduciosi; nell'era delle sottogonne e del rock'n'roll, il passato nazista era un malloppo da dimenticare.
In questo contesto, nel 1958, un giovane pubblico ministero entusiasta ed idealista, Johann Radmann (intepretato da Alexander Fehling), si imbatte in alcuni documenti. Spronato dal pubblico ministero generale Fritz Bauer (Gert Voss), disseppellirà una memoria collettiva di orrore e ignavia, avviando il processo contro alcuni membri delle SS che avevano prestato servizio ad Auschwitz. Avrà però a che fare con muri di gomma e ostilità, imbattendosi nella scioccante evidenza che tutti sembrano essere stati coinvolti o colpevoli.

Incontriamo Giulio Ricciarelli, che ci accoglie con affabilità e sorriso italiani e precisione tedesca. 

Il labirinto del silenzio ci restituisce lo spaccato poco noto di una Germania di fine anni '50 tutt'altro che consapevole delle sue colpe e del massacro nazista. Com'è possibile? Che ricerche storiche ha fatto?

"È questo il paradosso del film. È incredibile in effetti e anche io non lo credevo, ma quello che raccontiamo è vero. Abbiamo lavorato strettamente con molti storici, in particolare con Werner Renz dell'Istituto Fritz Bauer dell'Università di Francoforte. Abbiamo avuto la collaborazione anche di Gerhard Wiese, uno dei tre giovani procuratori che avevano lavorato al primo processo di Auschwitz, e gli abbiamo chiesto: 'Signor Wiese, lei come ha saputo di Auschwitz?'. Ebbene, Wiese a 17 anni è stato soldato, negli ultimi mesi della guerra, ed è stato catturato dai russi: nel campo di prigionia c'era affisso un articolo con tutti i campi di concentramento tedeschi; i prigionieri tedeschi hanno però pensato che non fosse vero e che si trattasse di propaganda. Da allora Wiese si è dimenticato tutto, è poi rientrato in Germania nel '48, ha studiato legge, è diventato un procuratore e nel '62 il pubblico ministero generale Fritz Bauer lo fatto assistente di questo processo. Gli altri altri due procuratori già operativi gli hanno dato un libretto su Rudolf Höß, un comandante di Auschwitz catturato dai polacchi. Gli hanno detto: 'Leggi cos'è successo in questo posto'. Non sapeva, eppure era un avvocato, un uomo educato. Si deve inoltre considerare che all'epoca c'era una generazione nuova: chi aveva 5 anni quando la guerra è finita, è cresciuto in un'atmosfera in cui nessuno parlava mai del passato. C'era un misto di negare, non sapere, sapere un po', si dovrebbe sapere ma non si vuole sapere: ci sono tutti i colori in questo quadro e questo è quello che Il labirinto del silenzio tenta di raccontare". 

Non ha avuto timore di trattare per la sua prima regia e da italo-tedesco una storia così delicata per la Germania?
"Volevo fare questo balzo dietro la macchina da presa e ho cercato una storia abbastanza forte. Ho avuto un approccio iniziale un po' naïf, non mi sono fatto tanti problemi. Ho scritto la sceneggiatura con Elisabeth Bartel: quando scrivi realizzi un lavoro di fantasia, non è reale, si spera di farne un film. Poi quando la sceneggiatura è diventata solida e forte abbiamo trovato un finanziamento. A questo punto mi è venuto non il panico ma la paura sì: già fare un film per la prima volta è un grande compito, lo è ancor di più con una storia così importante, dove il tono del film deve essere giusto e non ci si può permettere tanti sbagli. Ma la forza della storia - non solo della sceneggiatura, ma della storia reale - ha preso il sopravvento e mi sono sottomesso ad essa. Mi sono detto: 'Farò del mio meglio'. Per andare avanti devi vivere ogni giorno come un giorno da conquistare ma con un atteggiamento professionale e sereno: non si può tenere in mente sempre la gravità e il peso del tema affrontato. Lo stesso è valso per tutti i collaboratori, per gli attori, per il team: la storia ci ha aiutato, era là, era forte, sapeva sempre cosa voleva e noi abbiamo fatto cosa voleva la storia". 

La figura centrale del giovane procuratore idealista Johann Radmann a chi si ispira?
"Ai giovani procuratori della realtà. Siccome con questo personaggio ci siamo presi una certa libertà emozionale, gli abbiamo attribuito un nome inventato. Volevo essere molto esatto con la storia. Uno dei giovani procuratori, Kügler, con cui abbiamo parlato scrivendo la sceneggiatura (è morto prima che girassimo il film), era davvero deluso dalla giustizia tedesca. Ha smesso di fare il procuratore, è diventato avvocato penale e anche difeso alcuni criminali di guerra. Questo aspetto, ad esempio, l'abbiamo messo nel personaggio di Johann. Johann si ispira molto alla verità storica, ma c'è in lui anche una certa licenza creativa".

Il film, in maniera opportuna ed emozionante, non indugia su immagini già tristemente note, di sadismo e morte nei campi di concentramento. Si sofferma piuttosto sulle facce sconvolte di chi ascolta i ricordi, sui movimenti delle mani di chi racconta. È una precisa scelta stilistica?
"Sì, è un rischo che ci siamo presi. Le immagini dei campi di concentramento sono note e sono già tanto nel pubblico. Il pubblico di oggi è sofisticato e credo che non voglia più vedere scene ricreate ad Auschwitz: si distaccherebbe dalla storia, sa che è finzione e guardebbe alla ricostruzione chiedendosi 'vediamo come la fa lui adesso'. Noi non facciamo un film sull'Olocausto ma sulla Germania degli anni '50, però abbiamo bisogno dell'orrore dell'Olocausto. Abbiamo scelto di far sì che in quei punti il film quasi si ritirasse, lasciando vivere la fantasia e la memoria del pubblico. Il risultato mi rallegra perché sembra che funzioni: è più emozionale così, credo che funzioni meglio di flashback o qualcosa del genere, che sarebbe stato anche manipolativo. Negli anni '70 c'era una serie televisiva, Olocausto, con Meryl Streep: era molto importante perché erano le prime immagini di fiction su Auschwitz. Oggi ormai ci sono tantissimi film. Se uno va là deve avere un'idea speciale, come La vita è bella di Benigni e come - credo - Il figlio di Saul, che non ho ancora visto. Per il mio film non avrei trovato giusto fare alcune scene ad Auschwitz". 

Lo scopo del film è far conoscere i processi di Auschwitz, meno noti di quelli di Norimberga?
"Lo scopo primario era fare un bel film da vedere, emozionale. Io vengo dal teatro: se chiedo tempo alla gente, voglio anche offrirgli un'esperienza intensa. Poi sì, volevamo raccontare questa storia sconosciuta nel mondo, in Germania come in America, una storia che merita un film. E poi raccontare anche quant'è difficile per un popolo affrontare il proprio passato. Nel miracolo economico in Germania tutti guardavano avanti, tutti negavano, non ne volevano parlare. Inoltre volevamo sottolineare la forza dell'individuo, rappresentata da questi giovani procuratori di Fritz Bauer che hanno detto: 'Basta, noi non possiamo non affrontare, dobbiamo farlo per essere una democrazia stabile; per ricostruire la Germania dobbiamo affrontare cos'è successo'. Questo è un atteggiamento molto morale e coraggioso che trovo bello da raccontare".

Il film è una riflessione sulla responsabilità ma sembra non voler essere troppo giudicante verso il passato.
"Il personaggio centrale, infatti, a un certo punto dice: 'Non so cosa avrei fatto io'. E questa è la massima umiltà. Un film non può mettersi su un piedistallo a giudicare. Siamo tutti umani e dobbiamo avere l'umiltà di capire che l'essere umano è capace del bello ma anche del cattivo. Non si può giudicare gente dalla poltrona, quando non si sa come ci si sarebbe comportati in una data situazione. Volevo raccontare contemporaneamente due cose: da una parte l'ampiezza della colpa che esiste in Germania, perché non sono stati solo pochi nazisti, è stato tutto un popolo a sbagliare, anche non resistere è stata una forma di collaborazione; dall'altra parte però non volevo giudicare. Ognuno di noi nella propria vita deve fare delle scelte giuste". 

Crede di aver messo qualcosa di italiano nel film?
"Chiamandomi Giulio Ricciarelli, in Germania vengo sempre trattato come italiano. Sono nato in Italia e mi sento anche molto italiano, pur se non solo italiano. Credo che l'emozionalità che il film esprime sia molto italiana. Se si vede il cinema tedesco spesso è più distante e secco, più analitico che emozionale. Io invece ho cercato l'emozionalità e lo trovo molto italiano".

La sua carriera è impostata in Germania ma crede che lavorerà in futuro in Italia?
"Il bello del cinema è che si può variare. La mia carriera si è sviluppata in Germania perché ho fatto la scuola là e ho iniziato là. L'Italia ha una grandissima e bellissima tradizione cinematografica. Mi piacerebbe molto lavorare in Italia, sarebbe un sogno".

A proposito di sogni, se lo sarebbe mai aspettato di entrare nella shortlist dei nove titoli in corsa per l'Oscar al film straniero?
"Non me l'aspettavo, sono molto onorato. È molto bello, sono nervoso naturalmente. Vediamo come andrà ma già sono molto contento che il film giri il mondo: è stato in Brasile, in Cina, in Giappone, Australia, America. Siamo riusciti a fare un film che è un po' universale, che tocca la gente. La corsa all'Oscar è un gioco, bellissimo: sono molto emozionato e se mi scelgono per la cinquina finale farò un salto e un urlo, sennò sarò depresso per tre giorni, ma è sempre un gioco". 

Il labirinto del silenzio, immagini del film

Il labirinto del silenzio
Good Films
Alexander Fehling e Frederike Becht nel film "Il labirinto del silenzio"

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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