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La pelle dell’orso: tra i monti a caccia del “diavolo” – La recensione

Dal regista Marco Segato un film dall’anima selvatica, inquieta e appassionata. Con padre e figlio alla ricerca di se stessi in un’impresa pericolosa

Il cinema rupestre in ottica italiana. Non è una scoperta, forse neppure una riscoperta. Di sicuro, però, la coincidenza è significativa.

Con tre film usciti in sala nell’arco di pochi mesi, con genesi, sviluppi e ispirazioni di genere differenti: il thriller quasi-horror In fondo al bosco di Stefano Lodovichi  (novembre 2015); la commedia delicata e sentimentale Fräulein – Una fiaba d’inverno di Caterina Carone (maggio 2016); e, oggi, La pelle dell’orso (uscita in sala 3 novembre) che il regista Marco Segato – autore molto interessante di documentari – ha desunto dal libro di Matteo Righetto e dedicato alla memoria di Carlo Mazzacurati in una esperienza produttiva che fa capo alla padovana Jolefilm.

Un rapporto problematico
Insomma un cinema davvero  indipendente di matrice quasi “artigianale”, che sa di legno e di rocce. Fin dall’inizio, nel prologo ambientale e umano anni Cinquanta fatto di ruvidezze e rapporti essenziali o addirittura difficili come quello che si misura tra un ragazzino dai molti complessi, Domenico (Leonardo Mason) e suo padre Pietro (Marco Paolini), uomo violento e ostile, ancora torturato dai sensi di colpa per la morte della moglie avvenuta tanti anni prima, più incline al vino che all’affetto per suo figlio.

Insomma, un rapporto da manuale di psicanalisi. Che subisce una scossa quando fa la sua comparsa el diaol, il diavolo, appellativo attribuito ad un vecchio, feroce e quasi leggendario orso: che di tanto in tanto si abbatte sulla piccola comunità montana e boscaiola consumando sugli animali le sue incursioni sanguinarie.

Quel “mostro” invincibile
Una Bestia. Considerata invincibile, accompagnata da fama mitologica e caratteristiche soprannaturali. Il bersaglio ideale per il riscatto di Pietro e per la sua condizione di reietto, chiuso nel suo isolamento, allontanato da tutti, incluso il suo datore di lavoro che lo ha appena licenziato dalla miniera.

Così l’uomo, dopo l’ennesima strage consumata dal diaol, decide di andarlo a cercare per ammazzarlo, scommettendo col suo padrone lo stipendio di un anno, ovviamente circondato dal generale scetticismo. Anzi, da un po’ di commiserazione, nella certezza che quella sarà per lui una sortita fatale: verso una morte cui, forse, egli stesso sta aspirando. E parte, Pietro, col suo fucile.

Ma, a sorpresa, si ritrova col figlio, che gli si è accodato, inseguendo anche lui un riscatto nella relazione con quel padre che lo ha sempre respinto.

Arcano cuore dolomitico
La caccia incomincia, occupando buona parte del film sulle tracce dell’orso e su quelle della scoperta di una rapporto mai nato: incrociando l’avventura con una lenta, progressiva rivelazione degli affetti, che più del territorio e della preda designata, prende a poco a poco le forme di una conquista.

In una dimensione del racconto che, accanto all’azione vera propria e alle complesse dinamiche di quel legame padre-figlio che certo ne rappresentano il nucleo significativo, privilegia ad ogni passo le sospensioni temporali di un cuore dolomitico che sa di misterioso, magico, arcano. Nella severità petrosa e a tratti ostile di uno spazio che, simbolicamente, s’accosta alle asperità del rapporto tra i due protagonisti.

Approccio arduo nella natura impervia: braccando un animale che pare trascendere la sua stessa essenza ferina per assumere, in certi passaggi della storia, le fattezze minacciose e dark di un autentico “mostro” e dèmone dei crepacci.

Ma Heidi non abita qui
Opera dall’anima selvatica. Piccola, affascinante, inquieta, appassionata. Che s’inerpica per i sentieri montani tra panorami spettacolari e attente risoluzioni narrative, tra favola alpestre di tonalità livide e realismo scabro e rugoso. Heidi non abita qui. Ce lo ricordano, con le loro maschere e la loro recitazione antinaturalistica, Marco Paolini nella parte di quel padre zotico e scostante capace di ritrovare ad un tempo dignità, rispetto di sé e amore per suo figlio; e il piccolo Leonardo Mason, che in quella di Domenico sembra filtrare, nelle distanze lecite e senza ricorrerere a paragoni irriverenti, certe memorie di ragazzini nel cinema neorealista.

Pulito, essenziale, vero. Tra i rimanenti attori un segno per Lucia Mascino, sua la figura di Sara, altra montanara tosta e anti-heidiana che lungo il cammino incontra Domenico e lo aiuta a raggiungere suo padre. Assumendo agli occhi del ragazzo un’immagine a mezza via tra una primitiva fata turchina e una reminiscenza d’ignoto amore materno.

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Parthénos Distribuzione, Ufficio stampa Lucrezia Viti, Livia Delle Fratte, Gabriele Carunchio. Foto © Massimo Calabria
Marco Paolini è Pietro, uomo violento e ostile, ancora torturato dai sensi di colpa per la morte della moglie

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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