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Franny: Richard Gere misantropo e filantropo

Recitazione virtuosa e nevrotica in una storia bizzarra un po’ incompleta. Ma con elementi di pregio e d’interesse

Il paesaggio autunnale trasuda malinconia e nostalgia tra le foglie ingiallite e fitte, le sfumature dal bruno al rossastro, i silenzi ovattati attorno a un viaggio in automobile e a un’amicizia che si interrompono in un tragico crash. Dove tutto finisce e tutto ricomincia.

Finisce il rapporto tra Franny (Richard Gere) e i suoi amici del cuore, coi quali condivide praticamente tutto, compreso il tenerissimo affetto per la loro figlia Olivia. Che diventerà orfana nell’incidente di macchina del quale Franny è artefice involontario, portandosene poi dietro le conseguenze fisiche e psicologiche, incluso un senso di colpa destinato a cambiargli la vita.

Passano cinque anni e Olivia ricompare, con volto di Dakota Fanning. Torna a Philadelphia, da dove era sparita, incinta e in compagnia di suo marito Luke (Theo James). Franny, nel frattempo, sembra invecchiato di cent’anni, lunghi capelli e barbone bianchi, il bastone che accompagna il suo andare claudicante, residuo di quel terribile incidente, l’aria da santone misantropo che grava su un cupo isolamento.

Missione espiatoria
Franny è ricchissimo. E molto generoso. Almeno quanto è solitario. Un misantropo filantropo. Usa il denaro come per compiere una missione che, visti i precedenti, potrebbe essere espiatoria. Per lui l’amata Olivia è come una figlia: così la riempie di attenzioni e di dollari. Luke è un medico disoccupato? Franny lo assume nel suo ospedale con incarichi importanti. La dimora di Olivia è inadeguata? Franny le compera la villa dei genitori morti e glie la regala, magari incurante dell’ingombrante mole di ricordi che contiene. E via così.

Quest’uomo è fin troppo prodigo e passa come un rullo compressore sulla coppia di sposini, in verità sempre meno arrendevole davanti a tanto invasiva premura.  E quando la libertà incomincia davvero ad agonizzare arriva, puntuale, la ribellione. Con esiti incerti.

Prigioniero della droga
C’è però un altro aspetto importante della faccenda. Franny è morfinomane fino ai capelli. Lo hanno imbottito di medicine e, appunto, di morfina per alleviare fratture e ferite subite nell’incidente di macchina.  Ma dalla terapia antidolorifica alla dipendenza il passo è stato breve e adesso lui è in trappola. Imprigionato in una morsa dalla quale non può uscire se non passando attraverso la porta degli affetti perduti cinque anni prima, oggi rappresentati, appunto, da Olivia, da suo marito e dal bambino che verrà. Una ricomposizione forse impossibile, che comunque dà al protagonista almeno la forza di “provarci”, di lottare contro la droga.

Due strade narrative
Il film, diretto dall’esordiente trentenne di Washington Andrew Renzi, procede lungo queste due parallele. Che diventano anche due differenti strade narrative. Da una parte l’intricato rapporto che lega Franny ad Olivia e Luke, naturalmente più a lei che a lui. Franny spera che il ritorno della ragazza e del marito possa restituirgli la sua stessa vita perduta. Non solo. “Comperando” la loro vita, così come fa con tutto ciò che gli sta attorno, si illude di ricostituire attorno a sé il rapporto che lo legò agli amici di una volta, forse addirittura identificando la coppia di oggi in quella di ieri, in un complesso, delirante turbine mentale.  

Dall’altra parte c’è l’inferno della droga. Che dà, certo, a Richard Gere l’opportunità di sfoderare una recitazione ad alto tasso drammatico, virtuosa, pirotecnica, nevrotica; ma che allo stesso tempo, fa da divaricatore tra le due parti del film, prolungandosi oltre una misura plausibile nelle spire di una lotta affannosa e solitaria, allontanando anche stilisticamente il corpo principale del racconto, certamente più intrigante, però destinato, proprio su questa frattura, a restare meno compiuto. Così come incompiuta, perché non approfondita, tortuosa, quasi posticcia ed estranea, rimane la porzione di storia riservata alla tossicodipendenza. Insomma c’è la sensazione di trovarsi di fronte a due film incompleti: rimaneggiati a tal punto da non farne uno intero.

Un incubo ricorrente
Non mancano comunque gli elementi di pregio e d’interesse. Specie là dove prende forma il rapporto tra Franny e la coppia di sposi, con tutte le sue implicazioni legate al gioco della memoria e ad un passato che, se si vuole, banalmente, non può tornare. La generosità imbarazzante del canuto sbilenco filantropo, il senso di pericolo incombente che a tratti accompagna le sue azioni, l’incubo ricorrente, revenant, che gli torna alla mente con le immagini dell’incidente tra fumi, nebbie e metalli contorti consegnano al film un certo tono misterioso e bizzarro un po’ come il suo protagonista. A tratti preda nei gesti di una intensità ossessiva e malata, perfino horror nelle sfumature più patologiche.

Merito, anche qui, della recitazione di Gere, a volte sopra le righe ma certamente efficace. Più pallide, ovviamente, se pure pregevoli, quelle di Dakota Fanning e Theo James, Olivia e Luke, che per nessuna ragione al mondo vogliono diventare replicanti dei genitori di lei.

Leggende della musica
Nella tracklist, ampiamente diffusi dal trailer e felicemente piazzati lungo lo srotolarsi dei fatti, due brani leggendari e coinvolgenti (quanto è importante la musica  nel cinema…): Where Is My Mind? dei Pixies, anno 1988, traccia 7 dell’album Surfer Rosa, utilizzata tra l’altro nel finale di un altro film importante come Fight Club di David Fincher (1999), riproposta in una bella versione dei Placebo nel 2003; e Have You Ever Seen the Raindei Creedence Clearwater Revival, 1970, quarto pezzo del lato A di Pendulum, ne restano in memoria due cover di lusso firmate Rod Stewart e Bonnie Tyler.

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Lucky Red Distribuzione, Ufficio stampa Lucky Red
Olivia e Luke finalmente soli con i loro figlio appena nato: troveranno la forza di liberarsi della troppa generosità di Franny?

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