Frank Sinatra, ricordo di un immortale
Peter Bolton, Hulton Archive
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Frank Sinatra, ricordo di un immortale

Il 15 maggio del 1998 scompariva uno dei più grandi artisti del XX secolo. Un fuoriclasse dal talento purissimo, unico come i suoi eccessi e le sue contraddizioni, che ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica (e non solo)

Nella storia di Las Vegas sarà capitato qualche black out, prima o poi. Una volta, e una volta soltanto, è capitato che la corrente sia stata tolta di proposito: è successo 15 anni fa, quando è morto Frank Sinatra. Sulla Las Vegas Strip (il cuore del Paese dei Balocchi, con 19 superalberghi e 65.000 camere a disposizione di giocatori e viveur), la notte del 15 maggio 1998 scese l'oscurità, in segno di rispetto per The Voice, che aveva chiuso gli occhi solo poche ore prima. Dio sa se qualcuno si era meritato questo omaggio più di lui: nel deserto del Nevada Frank aveva portato capitali, amici famosi, giornalisti, e aveva speso il meglio del suo talento, attraverso migliaia di show in cui fumo, canzoni, whisky e adrenalina si mescolavano per trasformare la storia in leggenda.

Una leggenda che neppure la sua morte, e i tre lustri che sono seguiti, hanno potuto minimamente scalfire: anzi, ancora oggi quando si parla di Sinatra si ha la percezione quasi fisica di cimentarsi con la storia di un immortale, uno che non ha dovuto aspettare la morte per entrare nell'Olimpo dalla porta principale. 

Se infatti Las Vegas (come Atlantic City, e New York, e molte altre città americane) ricorda con particolare riconoscenza la sua arte, il palcoscenico di Frank in realtà è stato il mondo, e non è un modo di dire. Fosse stato per lui, avrebbe cantato anche nella giungla amazzonica. Adorava viaggiare, e non aveva mai digerito il fatto di non essersi mai potuto esibire in Russia e in Cina, dove immaginava di contribuire alla distensione internazionale a suon di musica. In una carriera durata 63 anni ha inciso più di 60 album di brani inediti, interpretato 2200 canzoni, duettato con Ella Fitzgerald ed Elvis Presley, recitato in più di 50 film (vincendo un Oscar nel 1953 per Da qui all'eternità), venduto centinaia di milioni di copie. In una vita piena di record, solo due cose restano impossibili da quantificare: il numero dei suoi show dal vivo, e quello delle sue conquiste.

«La mia voce è fatta per la notte», diceva, e si regolava di conseguenza: di lui si ricordano maratone che partivano prima di mezzanotte e si concludevano all'alba, dopo sette concerti consecutivi. Non era una questione di avidità (già negli Anni 50 era diventato ricchissimo) ma la smania di esibirsi, di sentire l'affetto del pubblico, di fare quello che per lui era meglio che respirare: cantare. Negli anni d'oro fumava come una ciminiera, beveva almeno un litro di whisky al giorno, eppure le sue martoriate corde vocali, nonostante qualche crisi passeggera, non l'hanno mai tradito, sia che interpretasse i suoi brani più famosi o evergreen come The Girl from Ipanema, in duetto con il grande Antonio Carlos Jobim.

 

Non è solo per questo, però, che Sinatra è inimitabile: a renderlo unico sono le sue contraddizioni, le luci e le ombre della sua vita privata, l'America in cui spadroneggiava, così diversa da quelli di oggi. In vita sua ha frequentato molti presidenti americani (il primo fu Roosevelt, in onore del quale chiamò suo figlio Franklin; l'ultimo Bush senior), ma anche molti gangster in odore di mafia. La sua arte era soprattutto istinto, eppure aveva lavorato per anni sulla sua voce e sulle tecniche di respirazione, per raggiungere i risultati ben noti. Aveva fatto di tutto per far riconciliare due suoi grandi amici, Jerry Lewis e Dean Martin, salvo poi rompere con lo stesso Martin (una specie di fratello, per lui) perché questi aveva interrotto una tourneé in coppia, alla notizia della morte di suo figlio.

Impossibile a volte capire Sinatra: l'uomo che si metteva in posa accanto a criminali e padrini era lo stesso che, negli anni in cui la segregazione razziale era dura a morire, aveva minacciato di lasciare Las Vegas se i locali del posto non avessero accettato la presenza del suo amico di colore Sammy Davis jr. Era lo stesso Frank che aveva pagato personalmente le cure mediche necessarie al collega Lee J. Cobb quando la crociata anticomunista di McCarthy lo aveva in pratica rovinato.

Di aneddoti così se ne potrebbero raccontare migliaia: un giorno Frank accompagna l'amico Joe Di Maggio, asso del baseball e marito in crisi di Marilyn Monroe, in una spedizione punitiva. I due sono convinti di trovare la diva a letto con un'altra donna, ma quando sfondano la porta trovano solo una vecchietta terrorizzata che li denuncia. Scandalo epocale. E che dire della solidarietà che, molti anni dopo, Sinatra offre all'ex moglie Mia Farrow? La Voce vorrebbe far spezzare le gambe a Woody Allen, reo di averla lasciata per la figlia adottiva, ma la donna riesce a dissuaderlo.

Era questo il vero Sinatra, o quello che piangeva davanti al video alla notizia dell'omicidio di Martin Luther King? Nessuno potrà mai dirlo con certezza, ma di certo sono anche i suoi eccessi, la spavalderia, la voracità con cui aggrediva la vita e il successo, a fare di lui un personaggio epico, di certo discutibile, assolutamente inimitabile e insostituibile. Uno di quelli che forse lo hanno capito meglio è stato il comico Joe E. Lewis, che Sinatra interpretò nel film biografico Il jolly è impazzito. Dopo aver visto il film, Joe chiamò Frank e gli disse: «Mi sa che ti sei divertito più tu a recitare la mia vita che io a viverla».

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Alberto Rivaroli