Django, il pistolero 'low cost' che ha stregato Tarantino
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Django, il pistolero 'low cost' che ha stregato Tarantino

Esce oggi nelle sale Django Unchained, il nuovo film del regista americano. Un omaggio all'era degli spaghetti western e, in particolare, al cult movie del 1966 con Franco Nero. Un classico girato con due lire, che è entrato nella storia del cinema mondiale

I primi 40 minuti, una colonna sonora da urlo, la performance assolutamente strepitosa di Christoph Waltz, dentista pistolero. Basterebbero questi tre ottimi motivi, a mio avviso, per precipitarsi a vedere Django Unchained, il film di Quentin Tarantino che esce oggi e che l'attesa spasmodica degli ultimi mesi ha trasformato in uno degli eventi più importanti della stagione. Un kolossal fragoroso e coloratissimo, esagerato e diseguale come tutti i lavori del regista di Pulp Fiction, ma imperdibile per definizione: se nel panorama avvilente di sciocchezzuole teen, cartoon senz'anima e videogiochi in 3D che ci affliggono quotidianamente, ci mettiamo a discutere anche Tarantino, allora è meglio andare alla sala Bingo più vicina, e non se ne parli più.

Il film è una miniera di citazioni alte e basse che, oltre a rappresentare da sempre il marchio di fabbrica del Tarantino Style, ha scatenato in fan e cinefili una caccia al dettaglio che in certi casi ha del surreale: mancavano settimane alla prima e già ci avevano spiegato che la sella del terzo ronzino in fondo a destra è ispirata a un action movie sudcoreano, il tabacco da sputo dello schiavista è un rimando a Kurosawa, gli slip di Jamie Foxx sono un tributo a quelli di un giustiziere di Hong Kong... Scherzi a parte, la nuova saga di Quentin ha scatenato uno sfoggio di erudizione cinematografica senza eguali.

Tra tanti omaggi più o meno velati, ce n'è però uno che iI cineasta del Tennessee ha voluto manifestare meglio e prima di ogni altro: quello al film quasi omonimo di Sergio Corbucci (Django, 1966). Uno spaghetti western italianissimo, uscito in sordina ma assurto poi contro ogni aspettativa al rango di cult movie in mezzo mondo: basti dire che ne è conservata una copia al MoMa di New York. Un film per certi versi unico, che rappresenta una pagina epica della storia del cinema italiano cosiddetto minore.

Chiariamo subito un paio di cosette. Primo: il Django senza catene di Tarantino non c'entra niente con quello italiano. È uno schiavo (Jamie Foxx) che, liberato da un sedicente dentista (Christoph Waltz), lo affianca nell'attività ben più redditizia di cacciatore di taglie e poi, con il suo aiuto, si spinge nelle piantagioni di un crudele trafficante di uomini (Leonardo DiCaprio) per liberare la sua amata sposa Broomhilda (Kerry Washington). Nel film italiano, invece, il protagonista (Franco Nero) è un pistolero solitario, biondo con gli occhi azzurri, che semina cadaveri a carrettate per vendicare la morte della moglie. Le differenze non si fermano qui, visto che Tarantino ha potuto gestire un budget di 100 milioni di dollari e un cast di superstar, mentre Corbucci ha girato con uno zoccolo e una ciabatta. Insomma, se non fosse per la presenza di Nero (che Quentin ha voluto a ogni costo per un breve cameo), l'unico punto di contatto tra i due western consisterebbe nel nome Django.

Secondo: con buona pace del ragazzaccio di Knoxville, la vera folllia (in senso buono) non la trovate nel suo kolossal, ma nel film italiano. Uno sconcertante e ipnotico mix di parodia, horror e humor nero, con una dose inusitata di violenza che ne fece il primo western vietato ai minori di 18 anni nella storia della Repubblica. Tra le scene più efferate, quella in cui un sadico generale messicano taglia l'orecchio a un nemico e poi, tra le risate dei suoi accoliti, glielo infila in bocca. Una scena (puntualmente riproposta da Tarantino nel suo Le iene) che nell'Italia degli Anni 60 fece gridare allo scandalo. Per evitare guai peggiori, si decise di cancellare la scena, ma non in tutte le copie: così alcuni spettatori vedevamo la versione censurata, altri quella integrale. In parole povere, il pubblico entrava in sala senza sapere a quale edizione del film avrebbe assistito: uno stratagemma geniale che aumentò la curiosità già morbosa intorno alla pellicola.

Corbucci, del resto, era un personaggio leggendario per definizione, e non solo per la sua capacità professionale. Sembrava che la sua vita stessa fosse un copione: basti dire che aveva rischiato di rimanere cieco perché, durante le riprese di un film sul bandito Giuliano, un membro della troupe aveva avuto la bella idea di svegliare ogni mattina la "truppa” sparando in aria: un proiettile vagante aveva colpito il regista che perse un occhio (e gli andò ancora bene). Dopo aver diretto tra le altre cose sette film di Totò, varie avventure mitologiche e western come Minnesota Clay e Johnny Oro (altre fissazioni di Tarantino), accettò di girare Django con poco entusiasmo, anche perché il film serviva più che altro a coprire il buco lasciato nelle casse dei produttori dal tonfo di un thriller, La donna del lago, tragicamente scagato dal pubblico nonostante le sue ambizioni e un cast di grandi nomi come Valentina Cortese e Virna Lisi.

Girato in venti giorni tra la Spagna e la campagna romana, Django si apre con un'immagine entrata nella storia del western all'italiana: un pistolero solitario arriva in uno squallido villaggio al confine fra Stati Uniti e Messico, dove due bande si contendono il potere. Praticamente la stessa storia di Per un pugno di dollari di Sergio Leone, ma poi ecco il colpo di scena: qui l'eroe si trascina dietro una bara, di cui nessuno tranne lui conosce il contenuto. Una trovata che cambia subito le carte in tavola e trasmette un'inattesa sensazione di originalità. E poi c'è Franco Nero, un bel tenebroso di Parma che però sembra americano, con i capelli biondi e gli occhi azzurrissimi. Arriva sul set che è praticamente uno sconosciuto, ma quando esce è già un divo.

Da questo momento in poi, il film si imprime nella memoria proprio perché sfiora il delirio, tra digressioni splatter (catturato dai messicani che aveva cercato di derubare, Django si vede maciullare le mani con il calcio di un fucile) e momenti di humor alla Monty Python: vedendo il pistolero che fa un solitario a carte accanto alla sua bara, l'oste del paese gli sussurra: "Ti piace giocare col morto, eh?". Non parliamo poi del trattamento riservato alle donne: dopo aver salvato la bella Maria, Django si rivolge così al generale messicano di cui la ragazza era l'amante: "Riprenditela, se vuoi: è ancora in buono stato". Quando poi il coperchio della cassa da morto si apre, e ne esce una mitragliatrice con la potenza di 150 fucili (così almeno dice il suo “padrone”), i cadaveri non si contano più, e pazienza se a volte i corpi sanguinano e a volte no: non è il caso di sottilizzare...

Ricco di trovate (gli sgargianti titoli color rosso fuoco, per esempio), sfacciatamente refrattario alla benché minima verosimiglianza (la scena finale è il massimo...), epico e cialtronesco, Django è un fenomeno inspiegabile, come quelle pietanze che hanno un buon sapore nonostante accostino ingredienti che sembrano fare a cazzotti. Quando lo videro in anteprima, esercenti e distributori scapparono a gambe levate: sembrava un miracolo già rientrare delle spese.  Invece, oltre agli eccellenti incassi, il film ha avuto anche la gloria: negli anni a venire Django si trasforma da personaggio a brand, e attira in automatico la gente al cinema. Alla fine degli Anni 60 si sono contati oltre trenta film, più o meno decorosi, che hanno raccattato incassi inattesi solo per aver citato nel titolo (totalmente a sproposito, sia chiaro) l'eroe di Corbucci.

Perché tanto entusiasmo, vi chiederete, per un western low cost che oscilla tra il cartoon e la favola gotica? Semplice, perché Django è molto di più: qui ci sono fantasia, genio, capacità di fare le nozze coi fichi secchi lasciando entusiasti gli invitati (pardon, gli spettatori). Ci sono nomi che hanno fatto la storia del cinema artigianale italiano, dai fratelli Corbucci (come sceneggiatore c'era anche Bruno, il minore) all'aiuto regista Ruggero Deodato (quello diventato famoso per i suoi documentari “estremi” sui cannibali), dal direttore della fotografia Enzo Barboni (poi regista con lo pseudonimo di E.B. Clucher di molte pellicole del duo Bud Spencer - Terence Hill) al compositore Luis Bacalov, che con il brano cantato da Rocky Roberts ha colto uno dei suoi successi più eclatanti. E, soprattutto, c'è un'idea del cinema e dell'Italia che, a differenza del film, è mestamente passata di moda. Oggi, però, grazie a un pazzoide americano quel favoloso made in Italy è tornato in prima pagina. Grazie, Quentin.

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Alberto Rivaroli