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Cure a domicilio, al cinema: una medicina per guarire l’anima - La recensione

Sorprendente e delicata opera prima del ceco Slávek Horák, pluripremiato ai festival: un'infermiera con la malattia riscopre se stessa

Corre di qua e di  là per la campagna ceca. Con la sua borsa zeppa di cerotti, unguenti e pasticche e la sua volontà univoca d’aiutare gli altri. I suoi pazienti. Fra tristi realtà di malattia, corpi patologici, sporcizia, affetto e riconoscenza. È Vlasta (Alena Mhulová), l’infermiera protagonista di Cure a domicilio (in sala dal 26 ottobre, durata 90’) dell’esordiente Slávek Horák, 42enne di Zlín, Repubblica Ceca, arrivato al film dopo due cortometraggi ed aver fatto l’assistente a quel Jan Svěrák vincitore nel ’96 dell’Oscar per la miglior opera in lingua straniera con Kolja.

Non gran che, si dirà, ma quanto basta per salutare la nascita di un autore raccolto e sensibile (comunque già pluripremiato ai festival), narratore attento di una storia certo dolente ma non per questo meno intima e leggera, elaborata su una figura che vive di generosa applicazione, trascurando soprattutto se stessa, non la sua casa e neppure il marito Láda (Bolek Polívka) pigramente affettuoso, amante della birra, del divano e della tv.

Mondi meditativi e spirituali per contrastare il male

Ma c’è un fulmine su questa vita che sembra correre in una sola direzione, provocandone deviazioni improvvise:  la scoperta della malattia che nel giro di pochi mesi  farà spegnere la luce di Vlasta. La quale, dopo qualche giorno di accorato stordimento, trova nella figlia d’una sua assistita la spinta per una nuova forma d’esistenza. La giovine si chiama Hanácková (Tatiana Vilhelmová), è pranoterapeuta, frequenta  mondi meditativi e spirituali e diventa la migliore amica di Vlasta. Alla quale trasmette, oltre il calore delle mani, il fervore d’un affetto sincero e premuroso, la cura dell’anima, la voglia di rinascere. Accompagnando, insieme con le ritrovate intese famigliari di un marito pur sempre attonito ma ora smarrito e disperatamente protettivo, l’ultima tranche de vie di Vlasta in climi di lieve, quasi frivola e pur consapevole gaiezza.

Realismo quieto, interiorizzato, a tratti “magico”

Energie vitali e spirituali,  recupero di femminilità perdute, una manciata di mesi davanti prima d’un esito ineludibile, caratteri profondi. Su queste basi Horák costruisce un film per molti versi sorprendente, recitato magnificamente – specie da Alena Mhulová, ma Bolek Polívka non le è da meno - percorso da un realismo quieto e molto interiorizzato, asciutto, scarno, pieno di dolcezza e soprattutto col merito di dribblare i modi della facile complainte.

Senza, con questo, concedersi esclusivamente al percorso orizzontale e affidabile d’un racconto “riparato” e senza rischi ma tentando in qualche occasione – e con successo – l’esperienza più fantasiosa, visionaria o addirittura ai confini del “realismo magico” (versante cinema ungherese degli anni Settanta) col concorso di elementi surreali o grotteschi: come quello legato all’immagine di un Paese un po’ matto  che finanzia una complessa opera stradale per costruire una galleria riservata al transito delle rane.

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Lab 80 distribuzione, Ufficio stampa Lab 80 Sara Agostinelli
Vlasta (Alena Mhulová) in una scena del film accanto al marito Láda (Bolek Polívka)

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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