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1945: due “visitors” nel villaggio della vergogna - Recensione

Dal regista Török Ferenc un apologo e un dramma della meschinità. In un paese che teme di restituire agli ebrei quanto rubato dopo le deportazioni

Seconda guerra mondiale? Macché, solo le sue scorie: neppure quelle, gigantesche, dell’atomica numero due lanciata a Nagasaki o quelle, altrettanto imponenti, della resa coatta del Giappone. Il 1945 di Török Ferenc (uscita in sala 3 maggio, durata 92’) parla invece di un piccolo polveroso villaggio rurale d’Ungheria scosso da un evento inatteso a conflitto oramai consumato. In un film che sviluppa tematiche umane, sociali e storiche in un bianco e nero splendidamente evocativo: dispensando emozioni  e concedendosi ad una piccola, elegante lezione di cinema.

Rivisitazione storica in percorso classico e inverso

Del resto, che la cinematografia ungherese stia rinascendo a livello internazionale dal suo passato stellante (negli anni 70 il suo “laboratorio” l’aveva portata in vetta all’Europa) lo dicono, tra molti titoli, anche quelli recenti de Il figlio di Saul di Nemes Lázló e Corpo e anima di Enyedi Ildikó capaci di rubare l’occhio e spesso anche il cuore. E, naturalmente, anche questo film. Che segue un percorso classico e inverso di rivisitazione storica attraverso eventi marginali, remoti o sconosciuti: come quello che investe come uno tsunami un piccolo paese contadino in un giorno d’agosto del ’45.

Calore e torpore nella stazione ferroviaria che aspetta pigra l’arrivo d’un treno con la sua locomotiva sbuffante, sferragliante e nera. Di viaggiatori se ne vedono scendere pochi, laggiù. E quando calano sul marciapiedi due ebrei ortodossi (Herrmann Sámuel e suo figlio, gli attori Angelusz Iván e Nagy Marcell) con un bagaglio di due grandi casse, che fanno caricare su un carretto per portarle in paese, scatta l’allarme.

Tutti agitati, soprattutto il potente vicario

Si agita il capostazione Állomásfönök (Znamenák István), molto meno i soldati sovietici che sulla loro jeep GAZ-67 - che gl’intenditori conoscono pure come Chapaev – controllano arrivi e partenze, unico segnale di un’occupazione che gli ungheresi fin da ora digeriscono male. Si agitano pure molti abitanti del paese. Ma si agita soprattutto Szentes (Rudolf Péter), il potente vicario del villaggio, proprio il giorno delle nozze di suo figlio Árpád (Tasnádi Bence) con la giovine contadina Kisrózsi (Sztarenki Dóra), matrimonio che già di suo pare avere più d’un impaccio.

Case e ricchezze da indebite appropriazioni

Perché i due misteriosi visitors accendono tutti questi turbamenti? La risposta è nei sensi di colpa e nella cattiva coscienza – in senso nietzschiano – di gran parte dei paesani che vedono in loro una minaccia alle loro case illegalmente sottratte agli ebrei profittando della loro deportazione, specie il vicario che da quelle indebite appropriazioni ha ottenuto ricchezza e acquisito, oltre l’abitazione, un fruttuoso negozio.

Il sospetto: un vendicativo recupero del maltolto

Che sono venuti a fare?” si chiedono tutti temendo che quella venuta  abbia funzione d’avamposto per una più cospicua rentrée dai lager adesso svuotati, così paventando un vendicativo recupero delle refurtive. Insomma: ostilità palpabile, mischiata con nervosismo e paura. Tanto da scatenare  fra gli stessi contadini dispute e scambi d’accuse, riaprendo vecchie ferite, scoperchiando sopiti rancori e pentimenti tardivi (c’è perfino chi s’impicca).

Prima che, magari e non senza conseguenze, ogni cosa torni al suo posto dopo aver verificato che quella strana “visita” punta ad una mite, diversa e non materiale memoria delle cose. Perché purtroppo nessuno, tra coloro che erano partiti, è sopravvissuto per reclamare il maltolto.

Quel passato complicatissimo e contradditorio

Apologo e testimonianza insieme, attorno a un fenomeno evidentemente diffuso tra le pieghe di un passato complicatissimo e contradditorio. Che Török, 47enne cineasta di Budapest tra i più quotati della nuova generazione, rappresenta quasi col passo del “giallo” di dimensione corale nella campagna afosa e arsa, percorsa a piedi dai due ebrei al seguito del carro che potrebbe essere “funebre”. Elaborando, sulla scorta di un racconto (Homecoming) dello scrittore ungherese Szántó T. Gábor , un dramma della meschinità dai toni acidi e grotteschi, riflesso nei contrasti e nei mezzitoni grigi della ricercata fotografia di Ragályi Elemér, altro segnale di puro cinema proveniente da una scuola rinnovata sulla sua tradizione.

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Mariposa Cinematografica distribuzione, ufficio stampa Carlo Dutto, Vania Amitrano
Herrmann Sámuel e suo figlio (Angelusz Iván, a sinistra, e Nagy Marcell) in piedi dietro al carro. Sullo sfondo il vicario Szentes (Rudolf Péter)

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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