L'eroismo della quotidianità
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L'eroismo della quotidianità

DIARIO DEI GIORNI DISPARI

29 giugno ’16 – E non so quanto possa piacerti il calcio, Agnese. E mica perché sia uno sport più da maschi che da femmine (dare ancora credito a luoghi comuni come questo, oggi, è come vivere alla moda dei gamberi, che vanno avanti dando le spalle al futuro). Ma perché, per esempio, a tuo fratello il calcio non dice molto. Anzi: al frusciare del pallone sull’erba preferisce il rombo di un motore biturbo. E siccome è dentro le sue scarpe che già cominci a mettere i tuoi piedini, nel gioco quotidiano di immaginarti grande, non mi stupirei se tu prendessi da lui anche il gusto della velocità o l’ebbrezza di una derapata in cortile.

Per ora, piccolina, non so quanto possa piacerti il calcio. So che a me piacerebbe potertelo, di volta in volta, raccontare. Non tanto nelle sue dinamiche di campo (schemi, trucchi, regole, tattica). Quanto piuttosto nelle sue storie. Con i suoi eroi e i loro volti. Nella sua epica. Nella sua dimensione di romanzo collettivo capace di trasformare cortili, città, nazioni; capace, almeno per qualche ora, di far credere a un popolo di essere migliore. E imbattibile.
Prendi cuor di Leo(ne) Messi, per esempio. Quella di Messi è una grande storia di calcio. Di calcio come merito, riscatto e talento che può tutto. È la storia del più mingherlino della famiglia, della classe, della città (Pulce lo chiamavano), che però ha dentro una forza e una magia incredibili: col pallone tra i piedi sembra il figlio che dio Eupalla ha inviato sulla terra a dispensare sorrisi e buoni sentimenti. Leo Messi, da Rosario, Argentina. Uno che restando piccolo (e non solo fisicamente) è diventato il più grande. Uno che ha vinto tutto, con la maglia numero 10 (il numero dei geni) della sua squadra di club.

Uno che, però, non ha mai vinto niente con la squadra del suo Paese. Perdendo tre finali in tre anni. Ecco. Lionel Messi, a 29 anni (l’età in cui i giovani italiani aspirano ancora a uno stage non retribuito in azienda), dopo l’ennesima sconfitta, dopo l’ennesima medaglia d’argento, dopo un rigore sbagliato…ha detto basta. Ha detto che la divisa Albiceleste della sua nazionale non la indosserà più. Che è stanco di arrivare secondo e di sentirsi per questo il bersaglio di tutte le critiche. Che certe delusioni sono troppo grandi da gestire, anche per chi ha un talento smisurato come il suo. Che forse è destino che lui, con i suoi connazionali, non vinca mai nulla. Che è inutile star lì a tentare di buttar giù i muri a pallonate. Meglio rinunciare a quella maglia.

Beh, piccolina, lo dico a te (non potendo dirlo a lui): se davvero rinuncia, Messi sbaglia. E calcia alto un altro rigore. Un po’ perché (come gli ha anche rimporverato una maestra, per lettera), rinunciando, tradisce quei milioni di bambini (e bambine) che, in Argentina e nel mondo, lo vedono come un eroe. E gli eroi, per i più piccoli, sono invincibili anche quando perdono o arrivano secondi. Un po’ perché, rinunciando, tradisce la sua stessa storia, fatta anche di grandi rivincite dopo tante amarezze. Un po’, infine, perché così dà ragione a chi non ha mai smesso di ritenerlo un bimbo gracile e inaffidabile.
Per quanto mi sarà possibile, io proverò a farti crescere con l’idea (contraria) che le sconfitte, sudate, possono essere più salutari di certe vittorie. Che vincere (nella vita, in uno stadio, in amore, a scuola) significa dare tutto ciò che si ha dentro. E se tutto quello che hai dentro poi non basta a farti vincere, non dovrai mai pensare di valere qualcosa solo se salirai sul primo gradino del podio.Perché tu sarai, e varrai, molto di più di una medaglia, di un trofeo, di un bel voto in pagella, di una promozione sul lavoro.

Vedi, anche senza essere Messi, c’è un eroismo quotidiano da praticare. E va misurato con la generosità con cui ognuno mette il proprio talento a disposizione di tutti, anche rischiando di restare soli, in caso di sconfitta. (“...Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore. Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia...”, recita una delle mie canzoni preferite).
Io proverò a spingerti, biondina squeta, a coltivare questa eroica normalità. Mostrandoti che la vittoria più gratificnte è superare i propri limiti prima che un avversario nella gara finale (due sfide che, di solito, vanno insieme). Insegnandoti che per praticare quest’eroismo non servono le palle quadrate (come dice chi crede che il calcio sia roba solo da maschi), ma un cuore enorme e un sorriso largo. Come i tuoi: senza angoli, chiusure, spigoli.

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Matteo Durante

G. Matteo Durante è nato 40 e passa anni fa a Bergamo, ha studiato filosofia a Milano ed è un giornalista. Dopo aver lavorato a Panorama, dal 2012 vive in una delle più affascinanti città siciliane: Modica, in provincia di Ragusa. A chi gli chiede il perché di questa sua emigrazione al contrario, risponde così: "L'ho fatto per amore". Cioè: per amore di una vita più slow e per il desiderio di regalare a se stesso e alla propria famiglia il contatto diretto con la natura, con la bellezza e con la cultura millenaria del Sudest siciliano. Si occupa di contenuti web, siti, copywriting e social media, scrive reportage di matrimonio (sul suo sito www.spositelling.it), cura progetti socioculturali e si dedica ai suoi due figli: Filippo, il primogenito, e Agnese, la seconda arrivata. A lei è dedicato il "Diario dei giorni dispari" che, da papà innamorato, scrive dall'estate del 2015.

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