Le parole sono importanti

Anche qualche giorno fa, mentre uscivo dal lavoro e camminavo sotto una pioggerellina finissima e forse troppo calda per essere davvero novembrina, mi è capitato di incrociare – in punti diversi del mio percorso – un paio di stranieri che …Leggi tutto

Anche qualche giorno fa, mentre uscivo dal lavoro e camminavo sotto una pioggerellina finissima e forse troppo calda per essere davvero novembrina, mi è capitato di incrociare – in punti diversi del mio percorso – un paio di stranieri che borbottavano tra sé nella propria lingua madre.

Simili incontri mi capitano abbastanza di frequente; immagino dunque che sia un fatto noto e consueto per tutti e che anche voi abbiate presente la cosa.

Sebbene dunque avessi già notato il “fenomeno”, indubbiamente, non ne avevo mai tratto particolari riflessioni: avrò magari pensato che è normale, che uno avrà pure il diritto di parlare il proprio idioma con chi vuole (anche con se stesso, in mancanza d’altri); e un pensiero tanto banale, benché di buon senso, non è neanche salito al livello della coscienza.

Stavolta invece mi è venuto in mente Norman Manea, eccellente scrittore rumeno di origine ebraica, costretto all’esilio verso la fine della dittatura di Ceauşescu (quando cioè la finzione socialista aveva lasciato la scena a un regime apertamente nazionalista, non esente dai tratti peggiori della lunga e terribile tradizione antisemita locale). Eppure, cacciato dal proprio paese, Manea rivendicò in seguito di essere sempre rimasto un intellettuale e uno scrittore rumeno: perché, anche in esilio, aveva continuato a vivere dentro la lingua rumena, e da questa nessuno poteva cacciarlo. E se un giorno a New York tutti avessero parlato rumeno, allora la Romania sarebbe stata a New York, perché la patria è dentro la lingua (qui farei il nome di Wittgenstein, non fosse che non si spiegano le influenze).

Allo stesso modo, lo straniero che incontro sotto porta Galliera a Bologna, mormorante una strana cantilena che è la sua lingua, con quel discorrere fra sé sta tornando a casa, ai propri luoghi, ai propri ricordi; sicché se qui domani si parlasse quella lingua, allora Bologna diventerebbe una parte, a me ignota, del subcontinente indiano. E non avrebbero importanza le strade porticate, né questo novembre tiepido che comincia solo ora a volgere all’inverno.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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