«L’assalto del serafino»: trasverberazione del cuore e plagi letterari
«Volle il Signore che, trovandomi in questo stato, avessi più volte la seguente visione. Vedevo un angelo accanto a me, a sinistra, in forma corporea: cosa che non mi accade che rarissime volte. Benché infatti gli angeli mi appaiano molto dovente, non mi accade …Leggi tutto
«Volle il Signore che, trovandomi in questo stato, avessi più volte la seguente visione. Vedevo un angelo accanto a me, a
sinistra, in forma corporea: cosa che non mi accade che rarissime volte. Benché infatti gli angeli mi appaiano molto dovente, non mi accade quasi mai di vederli in tal modo, ma nella maniera tutta intellettuale che ho detto prima. Stavolta piacque al Signore ch’io lo vedessi sotto questa forma. Non era un angelo grande ma piccolo, bellissimo, col volto così infocato che pareva di quegli angeli dei cori più alti, che paiono ardere tutti d’amore. Devono essere di quelli chiamati cherubini, ma [non ne sono sicura perché] non mi dicono mai i loro nomi, anche se vedo benissimo che in cielo c’è tanta differenza da una categoria di angeli all’altra e dall’uno all’altro di essi che tutto quel che potrei dire è poca cosa.
Lo vedevo tenere in mano una lunga freccia d’oro, che sulla cuspide mi pareva avesse un po’ di fuoco. Mi pareva
che me la conficcasse più volte nel cuore, spingendola fin dentro le viscere: e quando la estraeva, avevo l’impressione che se la tirasse dietro, lasciandomi tutta ardente di un immenso amor di Dio. Il dolore era tale, che mi faceva emettere quei gemiti che dicevo, ma la dolcezza, al tempo stesso, era così sovrabbondante, che l’anima non poteva desiderarne la fine né volere altra consolazione che Dio. Non è un dolore fisico ma spirituale: eppure il corpo vi partecipa alquanto, anzi parecchio. È così dolce
l’idillio che allora passa tra l’anima e Dio, che supplico la sua bontà di farlo provare a chiuque pensasse che sto mentendo».
Santa Teresa D’Avila, Vita
In forza di obbedienza mi induco a manifestarvi ciò che avvenne in me dal giorno 5 a sera a tutto 6 del corrente mese. Me ne stavo
confessando i nostri ragazzi la sera del 5, quando tutto d’un tratto fui riempito da un estremo terrore alla vista di un
personaggio celeste che mi si presentava dinanzi all’occhio dell’intelligenza. Teneva in mano una specie d’arnese, simile ad una lunghissima lamina di ferro, con una punta bene affilata e che sembrava da essa punta che uscisse
fuoco. Vedere tutto questo ed osservare detto personaggio scagliare con tutta violenza il suddetto arnese sull’anima, fu tutto una cosa sola. A stento emisi un lamento, mi sentivo morire. Dissi al ragazzo che si fosse ritirato, poiché mi sentivo
male e non sentivo più la forza di continuare. Questo martirio durò, senza interruzione, fino al mattino del giorno 7. Cosa io
soffrii in questo periodo sì luttuoso io non so dirlo. Persino le viscere vedevo che venivano strappate, e stiracchiate dietro di quell’arnese, ed il tutto era messo a ferro e fuoco. Da quel giorno in qua io sono stato ferito a morte. Sento nel più intimo dell’anima una ferita che è sempre aperta, che mi fa spasimare assiduamente».
Nel segno di Francesco. Le lettere del Santo di Pietrelcina
A creare disagio alla lettura di questi documenti non è, per il laico che sia incidentalmente un consumatore di miti popolari e letteratura, né il contenuto, la cui quasi identità ha creato per casi come questi la figura mistica dell’«assalto del
serafino», né la probabile afferenza di questo contenuto a ciò che in psichiatria si chiama Disturbo da trance dissociativa, così definito nell’ultima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disordersdell’Associazione Americana di Psichiatria, [1994]: «Nel “possession trance“, c’è l’apparizione di una (o diverse) distinta identità (spiriti dei morti, entità soprannaturali, dei, demoni) con caratteristici comportamenti, memoria e attitudini. I movimenti tendono ad essere più complessi (conversazioni coerenti, gesti, espressioni facciali, che sono culturalmente stabilite come appartenenti al particolare agente dell’esperienza di possessione)».
Non è tanto questo, dicevo, a creare quel senso di disagio; quanto il fatto di essere in presenza, quantomeno, di un evidente caso di plagio letterario, compiuto al riparo del fatto che la maggior parte dei componenti del pubblico del frate di Petrelcina presumibilmente non conosceva quel testo eccessivo, scandaloso, sofisticato e difficile che è l’autobiografia di Santa Teresa.