La stampa amica di Joe Biden
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La stampa amica di Joe Biden

Negli Usa gran parte della stampa è apertamente schierata con il candidato democratico e contro il Presidente Trump. Un po' come accade da noi

Tutto il mondo è paese? Probabilmente sì. Se credete che il giornalismo che cambia standard di valutazione in base alle simpatie politiche sia un problema soltanto italiano, siete in errore. Perché il doppiopesismo di certa stampa (purtroppo spesso di orientamento progressista) non conosce confini. L'ultimo esempio proviene dagli Stati Uniti, dove il probabile candidato democratico alla Casa Bianca, Joe Biden, non sembra sia stato granché messo sotto pressione dai grandi network televisivi e dalle più importanti testate giornalistiche davanti a un problema non poco spinoso. A che cosa ci riferiamo? Al fatto che, pur essendo oggetto di pesanti accuse a sfondo sessuale, l'ex vicepresidente non è stato particolarmente chiamato a rispondere dalla stampa su questo fronte. Ma andiamo con ordine.

Lo scorso 25 marzo, un'ex collaboratrice di Biden, Tara Reade, ha rilasciato un'intervista in cui ha affermato di aver subìto una violenza sessuale nel 1993 da parte dell'allora senatore del Delaware: una circostanza seccamente smentita dall'entourage dell'ex vicepresidente, che ha parlato di "false accuse". Ebbene, come riportato recentemente da Fox News, in nessuna delle interviste televisive a cui ha partecipato nelle ultime settimane, Biden è stato interpellato su questo argomento. Il 27 marzo aveva preso parte a un programma sulla Cnn, il 29 marzo a uno su Nbc, il 30 marzo è apparso su Mnsbc, il 31 è invece andato su Cnn e Mnsbc. Il 5 aprile ha parlato su Abc, il 7 aprile nuovamente su Nbc, l'11 aprile ancora su Msnbc e il 16 un'altra volta su Cnn. Nessuna di queste interviste ha riguardato la questione di Tara Reade. Un trattamento ben diverso, da quello che – nel settembre del 2018 – venne riservato da molti giornali e network americani al giudice conservatore, Brett Kavanaugh, nominato da Donald Trump alla Corte Suprema.

Proprio nel periodo delle audizioni per il processo di ratifica al Senato, spuntarono infatti contro il togato una serie di accuse di aggressioni e molestie sessuali, che riguardavano presunti accadimenti, risalenti a circa trent'anni prima. Il 16 settembre, a quattro giorni dall'inizio delle audizioni al Senato, la sua prima accusatrice, Christine Blasey Ford, si fece avanti pubblicamente. Il 23 settembre, un'altra donna, Deborah Ramirez, accusò il giudice di molestie nel 1983, mentre – tre giorni dopo – una terza donna, Julie Swetnick, dichiarò di aver visto Kavanaugh, ai tempi del liceo, cercare di far ubriacare delle ragazze, per mettere in atto delle "violenze di gruppo". La bufera politica – e soprattutto mediatica – che ne scaturì fu poderosa, nonostante l'effettiva fondatezza delle accuse mosse suscitasse più di una perplessità: non dimentichiamo che queste accuse non sono state supportate da testimoni terzi di prima mano (sul New Yorker, il 27 settembre, Jeannie Suk Gersense ne uscì addirittura dicendo che non fosse necessario corroborare le testimonianza della Ford perché in sé stessa credibile). Anche uno storico avversario di Trump come il presentatore di Msnbc Joe Scarborough criticò, a inizio ottobre del 2018, la copertura mediatica partigiana riservata al caso Kavanaugh da gran parte della stampa.

In tutto questo, vale la pena ricordare che il New York Times pubblicò un lungo e dettagliato articolo sulla vicenda già il 14 settembre del 2018: quando, cioè, l'accusa della Ford era ancora in forma anonima. Se invece andiamo a vedere quando la stessa testata ha deciso di occuparsi dell'attuale caso di Biden, scopriremo che – nonostante l'accusa della Reade risalga allo scorso 25 marzo – il primo articolo dedicato alla questione sia datato 12 aprile 2020: 19 giorni di ritardo. Tra l'altro – come riportato da The Hill –questo stesso articolo è finito al centro di una bufera, in quanto originariamente contenente la seguente frase: "Il New York Times non ha riscontrato alcun tipo di cattiva condotta sessuale da parte del signor Biden, al di là degli abbracci, dei baci e del toccare che le donne hanno detto in precedenza averle messe a disagio". Una frase controversa, che è stata fatta cancellare dal direttore esecutivo della testata, Dean Baquet, il quale ha lasciato intendere che la cancellazione sia avvenuta su richiesta dello stesso Biden. Quel Biden che, ricordiamolo, un anno fa aveva ricevuto svariate accuse per aver toccato delle donne in modo inappropriato. Sottolineiamo: quella frase non è stata cancellata perché inficiava apertamente i princìpi del movimento Me Too (che il New York Times ha sovente difeso), ma per richiesta di un candidato (democratico) alla Casa Bianca. "Credo che la campagna [di Biden] pensava che la formulazione della frase fosse scomoda e faceva sembrare che ci fossero altri casi in cui lui era stato accusato di cattiva condotta sessuale", ha riferito lo stesso Baquet lunedì scorso. E infatti, la frase incriminata è stata sostituita dalla seguente (ben più blanda): "Nessun'altra accusa di violenza sessuale è emersa nel corso del resoconto, né alcun ex membro dello staff di Biden ha confermato dettagli dell'accusa della signora Reade. Il New York Times non ha riscontrato alcun tipo di cattiva condotta sessuale da parte del signor Biden". Senza poi trascurare che, nello stesso articolo, sia presente un nutrito resoconto delle accuse a sfondo sessuale ricevute da Trump negli ultimi anni: accuse di cui ampiamente si è parlato e di cui altrettanto ampiamente si continua ovunque a parlare (a partire proprio dal New York Times). Accuse che non si capisce tuttavia che cosa c'entrassero esattamente all'interno di un articolo dedicato al caso Reade-Biden. O meglio, si capisce se, anziché quello di riportare fedelmente i fatti, l'intento fosse in realtà di natura politica. Del resto, basta fare uno sforzo di fantasia. Ve lo immaginate come si sarebbe comportato il New York Times se, nel settembre del 2018, Trump gli avesse ipoteticamente chiesto di attenuare la sua ostile campagna mediatica verso Kavanaugh? Come minimo si sarebbe parlato di attentato alla libertà d'informazione.

Tra l'altro, a lasciare abbastanza perplessi è una delle motivazioni addotte da Baquet per non aver ripreso tempestivamente la notizia dell'accusa mossa dalla Reade. "Kavanaugh", ha dichiarato, "era già nel dibattito pubblico in grande stile. Lo status di Kavanaugh come giudice della Corte Suprema era in questione a causa di un'accusa molto grave. E quando dico in modo pubblico, non intendo nel modo pubblico di Tara Reade. Se chiedi alla persona media in America, non sapeva del caso Tara Reade". In altre parole, par di capire che, secondo Baquet, l'accusa della Reade non fosse notiziabile perché si tratta di una figura fondamentalmente sconosciuta. Piccolo dettaglio: l'accusa è rivolta a Joe Biden, probabile candidato democratico alla Casa Bianca, vicepresidente per otto anni e senatore del Delaware dal 1973 al 2009. Forse che questo non basta a farne un personaggio notiziabile (tanto più in periodo di campagna elettorale)?

A scanso di equivoci, qui non stiamo entrando nella questione della veridicità di quanto asserito da Tara Reade: elemento che chiaramente sarà l'autorità giudiziaria a dover appurare. No, quello che qui è in gioco è l'onestà intellettuale di chi fa giornalismo ai massimi livelli, spesso con una spiccata tendenza a un certo moralismo un po' ipocrita. Perché, presa in sé stessa, l'accusa della Reade a Biden non ha certo meno valore dell'accusa della Ford a Kavanaugh. Eppure, il trattamento che è stato riservato ai due casi dal New York Times e dai principali network televisivi americani è profondamente differente. Dove sono i famosi standard deontologici del giornalismo statunitense? E soprattutto dove sono gli attivisti del Me Too che, mentre erano con la bava alla bocca ai tempi di Kavanaugh, con Biden invece non sembra si stiano scaldando più di tanto?

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Stefano Graziosi