Joan Didion, il White Album dell’America
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Joan Didion, il White Album dell’America

Da Il Saggiatore, saggi anni '60 e '70 riscoperti - memoir, critica, giornalismo - di una grande autrice statunitense

Sono passati trentasei anni, ma alla fine grazie al Saggiatore il White album di Joan Didion ha fatto la sua apparizione anche nelle librerie italiane.

È una lenta riscoperta quella che nell’ultimo periodo sta portando la scrittrice californiana all’attenzione di un pubblico di appassionati sempre più vasto, complice anche l’intensificarsi dell’impegno editoriale attorno alla sua opera: tre romanzi e la raccolta di saggi in oggetto, tutti pubblicati nel giro di pochi mesi. Da Diglielo da parte mia e Democracy, editi dalle Edizioni E/O, a Prendila così (edito dalla casa editrice il Saggiatore che in passato ha pubblicato anche Blue Nights, L’anno del pensiero magico e Verso Betlemme).

Sono solo parole
Raccontarsi delle storie, scrive Joan Didion, è il modo migliore che gli esseri umani hanno trovato per sopravvivere: «Cerchiamo la predica nel suicidio, la lezione sociale e morale nell’omicidio di cinque persone. Interpretiamo ciò che vediamo, selezioniamo la più praticabile delle scelte multiple (…) o quantomeno lo facciamo per un po’. Sto parlando di un periodo in cui ho iniziato a dubitare delle premesse di tutte le storie che mi fossi mai raccontata». Inizia così White Album, con la messa in discussione del principio su cui la scrittrice ha costruito la sua vita.

È consolante credere che la vita non sia altro che la messa in atto di una sceneggiatura scritta da qualcun’altro. A volte ci piace credere che la parte che ci è stata assegnata sia stata scelta proprio per noi (è il caso in cui “Dio” entra a far parte di questo grande spettacolo), altre volte ci rassegniamo a recitare a soggetto (quando dietro la macchina da presa ci sembra di scorgere il profilo incerto del “caso”), ma il più delle volte facciamo semplicemente quello che si può. «Sapevo solo quel che vedevo» scrive Joan Didion, «una serie di inquadrature in sequenza variabile, immagini senza alcun significato al di là della loro disposizione temporanea, non un film ma un’esperienza da sala montaggio».

L'estate in cui tutto cambia
Sul finire degli anni ’60, da quella sala montaggio usciranno due pellicole molto diverse: « L’unico commento che posso offrire è che, ripensandoci adesso, un attacco di vertigini e nausea non mi sembra una reazione inappropriata all’estate del 1968, poco prima che venissi nominata ‘Donna dell’anno’ dal Los Angeles Times (…) Era difficile sorprendermi in quegli anni. Era difficile anche avere la mia attenzione. Ero tutta presa dalle mie intellettualizzazioni, dai miei meccanismi ossessivo-compulsivi, dalle mie proiezioni, dalla mia reazione-formazione, dalla mia somatizzazione, e dalla trascrizione del processo Ferguson».

Due realtà, il pubblico e il privato, i cui confini evaporano nella scrittura di Joan Didion. Segue la pubblicazione del suo referto psichiatrico in cui si evidenzia come «i controlli affettivi fondamentali paiono essere intatti ma è altrettanto vero che al momento vengono mantenuti in modo insicuro e tenue da una varietà di meccanismi di difesa che includono intellettualizzazione, fissazioni ossessivo-compulsive, proiezione, reazione-formazione, e somatizzazione, tutti mezzi che adesso sembrano inadeguati al loro compito di controllare o contenere un sotterraneo processo psicotico e sono pertanto in fase di fallimento».

Avrebbe potuto raccontarci del processo di Ferguson o magari dell’articolo del Los Angeles Times, ma è evidente che la cosa non avrebbe avuto alcun interesse in questa sede, del suo punto di vista. 

Perché scrivo
Così scrive la Didion nel saggio Sul tenere un taccuino (che potete leggere in Verso Betlemme): «Non solo ho sempre avuto dei problemi a distinguere tra quello che è veramente successo e quello che sarebbe potuto succedere, ma continuo a non essere convinta che la distinzione, ai miei fini, abbia qualche importanza». In Perché scrivo dichiara ancora: «Se avessi avuto in dono un accesso anche solo limitato alla mia mente non avrei avuto alcun motivo di scrivere. Scrivo esclusivamente per comprendere cosa sto pensando, cosa sto cercando, cosa vedo e cosa significa per me. Quello che desidero e quello di cui ho paura». A prima vista non si direbbero le credenziali migliori con cui presentarsi se si ha l’ambizione  di offrire la propria scrittura perché altri possano leggere il mondo. Ma di questo la Didion è cosciente e si assume pienamente le sue responsabilità. Sempre in Perché scrivo ammette: «Scrivere è dire io in molte forme, un atto in cui ci si impone agli altri, un modo per dire ascoltatemi, vedetela a modo mio, cambiate idea. È un atto aggressivo, ostile persino».

La scrittura come atto ostile
Sulla pagina, però, non sei mai solo: «Ovviamente ascolto il parere dei lettori» ha dichiarato alla Paris Review, «ma l’unico lettore che ascolto sono io. Scrivo sempre per me stessa. Insomma, è probabile che stia commettendo un atto aggressivo e ostile nei confronti di me stessa». La grandezza della scrittura della Didion è tutta qui: nel prendersi la responsabilità di vivere e di raccontare il mondo pur riconoscendone tutta l’opacità, così come la fallacia della nostra capacità di giudizio e l’incoerenza del nostro essere uomini.

Nel dialogo ostile che intrattiene con se stessa, la scrittrice fa della vulnerabilità un’arma di conoscenza e della sincerità verso se stessa -del rispetto di sé (a cui ha dedicato un altro bellissimo saggio) - la sua unica difesa. Si capisce allora come quella della Didion è ben più che una presa di posizione stilistica: è una posizione morale. Immersi nel gorgo di un mondo inconoscibile, dove bene e male sono sempre legati fra loro, la via di salvezza rimane la conformità alla propria natura, per quanto possa essere imperfetta. Sulla base di questo, furono in molti a cercare nei romanzi tracce della sua vita, frammenti di quella interiorità che tanto spesso trovavano spazio nelle sue pagine per i giornali. Ma su questo la Didion fu sempre molto chiara: i suoi erano solo romanzi. Allo stesso modo nacque il mito presso il pubblico e i critici di una sua eccezionale fragilità, come se il mostrarsi sulla pagina in tutta la propria vulnerabilità (e consegnare i propri personaggi allo stesso destino) non fosse segno invece di una straordinaria tempra interiore.

I silenzi di Jim Morrison
Ma torniamo al White album, torniamo al mondo di Joan Didion. Torniamo ai silenzi di Jim Morrison e a tutte le pagine necessarie per descriverli (molte di meno bastavano per un’intera festa hollywoodiana). Torniamo alle parole di una donna che, dall’alto del suo metro e cinquanta per quaranta chili scarsi, non ha paura di trovarsi faccia a faccia (si fa per dire) con assassini e capi di stato né di elencarci il contenuto della sua valigia (niente vibratori, che credete, molto peggio: pantofole, rasoio, vestaglia, bourbon).

Contro l'ideologia
Prendete una pagina a caso di un libro qualunque di Joan Didion e non sbaglierete mai, sia che parli di Doris Lessing, sia che scriva di case governative, processi, rockstar, musei, Hollywood, film (inutile che vi dica che non è la stessa cosa, Hollywood è molto più interessante),politica o idraulica su scala nazionale, tutte cose di cui troverete traccia in White Album. Troverete distacco, empatia, sufficienza (disprezzo no, è difficile disprezzare se tieni in gran conto il rispetto), dolore, fibrillazione, disillusione, eccitazione, pietà, insofferenza per i luoghi comuni (e per l’individuazione topografica spiccia di nuovi luoghi comuni), una diffusa consapevolezza, l’affetto per le ingenuità altrui, entusiasmi eccentrici (per l’oceanografia e per le dighe, soprattutto).

Solo due cose non riuscirete a trovare: ironia e ideologia. Ma anche questa può essere una buona cosa se vi capita di leggere White Album (o un qualsiasi altro dei suoi libri) in un momento storico come quello che ci troviamo a vivere in cui l’ironia è legge. Quanto all’ideologia, scrive Joan Didion: «se riuscissi a credere che salire su una barricata possa avere il minimo effetto sul destino dell’uomo, ci salirei, su quella barricata, ma non sarei onesta se dicessi che prevedo di imbattermi in un finale tanto lieto».

Joan Didion, The White Album, Il Saggiatore 2015


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Giulio Passerini