I’m, infinita come lo spazio: il magico mondo di Jessica – Recensione
Nel quarto film di Anne-Riitta Ciccone la vita interiore di una ragazza dai capelli viola definita “stramba”. Che nel disegno vive la sua realtà seconda
Jessica dai capelli viola. Ma la sua testa non è sotto i capelli. Sta da un’altra parte, nel chissadove della fantasia libera. I’m – Infinita come lo spazio (in sala dal 16 novembre, durata 112’) la racconta con lo spirito e l’inclinazione un po’ spavaldi di una filmmaker come Anne-Riitta Ciccone, romana d’adozione ma nata a Helsinki da madre di Finlandia e padre di Sicilia, tre film girati prima di questo (Le sciamane nel 2000, L’amore di Màrja nel 2004, Il prossimo tuo nel 2009) che si fa notare, al di là d’ogni riflessione su stili e contenuti, per un formato 3D che già di suo, per una regista italiana, è una novità.
Quella dote straordinaria nascosta nella matita
Non la sola, però. Intanto perché nella parte di Jessica “la stramba” - che a scuola ìsolano, scherniscono e chiamano così per via del suo costante viaggiare fuori steccato - c’è Mathilde Bundschuh, attrice tedesca giovane ed emergente, mai vista nei nostri paraggi - physique du rôle perfetto per un personaggio che pare arrivato da Saturno o da qualche altro angolo della galassia. Poi perché nell’avanzare della storia quella figurina solitaria mostra, in senso puramente figurato, denti aguzzi e unghie affilate, nonché una dote straordinaria e, diciamo così, dirimente rispetto alla diffusa mediocrità dei suoi compagni: il talento nel disegno.
Che, da solo – e pur essendo già di per sé cosa notevole – sarebbe nulla se non vi fosse associata un’altra incredibile, sovrastante e prodigiosa capacità di dar corpo nella vita reale alle storie e alle avventure escogitate nel suo esercizio grafico e nei fumetti che ne derivano. In una estensione magica e seconda del proprio “sé”.
Un ragazzo timido e dark, una cantante punk
D’altra parte la fuga ai confini della realtà pare a Jessica l’unico possibile escamotage per sfuggire all’indifferenza se non addirittura all’aggressività e alle prepotenze degli altri studenti, alla torva e pessimistica vita di sua madre, alla scarsa compatibilità con la sorella più piccola. Un mondo visionario che la soccorre con le apparizioni benigne e fantàsmiche del padre scomparso col capo infilato in una zucca stile Halloween; che si affaccia finalmente su quello reale quando la ragazza riesce a stabilire un contatto con Peter (Guglielmo Scilla, il Willwoosh di Youtube cui deve fama e carriera emergenti tra cinema, web e radio), giovane timido, appartato e dark col quale sembra poter condividere certi principii caratteriali e comportamentali; e a seguire la difficile, tormentata traccia esistenziale di Susanna (Barbora Bobulova), cantante punk in un pieno, alcolico, rovinoso e malinconico declino reso ancor più patetico dalla drammatica voglia di rilanciarsi.
Tra la poetica di Rilke e il sound elettro-gotico
In questi mondi strapazzati e sugli orizzonti culturali di Jessica volteggiano – non proprio a caso - da una parte lo spirito di Rainer Maria Rilke e del suo Elegie Duinesi tenuto tra le mani e sfogliato come un manifesto programmatico simbolista ed espressionista insieme, interiorizzante, ribellista ed ascetico; dall’altra parte l’emanazione dei processi musicali della protagonista, condensati nelle sonorità piene e rotonde della band tedesca dei Project Pitchfork, dominante nel soundtrack in puro stile elettro-gotico con la voce profonda di Peter Spilles.
Contesto creativo originale e coraggioso
È la celebrazione di un cinema northern e visionario rimarcato da paesaggi alpestri e nevosi, dal gigantesco condominio tutto vetro, metallo e cemento dove Jessica nasconde (e disegna) parte della sua vita, da altre strutture architettonicamente evolute che consentono alla fotografia (di Pasquale Mari) di abbandonarsi a prospettive di qualche suggestione: all’apice di un film chiodato, frammentato e non tutto razionalmente organizzato ma inserito in un contesto creativo originale e abbastanza impavido nei valori intermedi della produzione italiana.
Da salutare perciò con simpatia, senza dimenticare, oltre a tutto, le sue pregevoli connessioni con talune esperienze del post-underground americano e di qualche new wave europea degli anni Settanta, come la tedesca e la francese più appartata (ricordate Patricia Moraz?).