Il notaio di Babele

C’è qualcosa che non mi convince nei bambini e nei ragazzi che non conoscono e non parlano più il proprio dialetto (già questo è strano, mi rendo conto: come si può definire “propria” a qualcuno una cosa che costui neanche …Leggi tutto

C’è qualcosa che non mi convince nei bambini e nei ragazzi che non conoscono e non parlano più il proprio dialetto (già questo è strano, mi rendo conto: come si può definire “propria” a qualcuno una cosa che costui neanche conosce? Diciamo allora: il dialetto dei propri padri. Ma non è neanche così semplice).

D’altra parte sono uno storico e devo per forza di cose nutrirmi di realismo: sicché so bene che un dialetto è una lingua completa e perfetta all’interno di un mondo ben preciso e che dunque, al venir meno di quel mondo, non si può pretendere che la lingua che lo descriveva continui a vivere. Non esistono lingue vedove della propria funzione; se esistono, sono idiomi artificiali e dunque non hanno più nulla a che fare con i dialetti, i quali rappresentano invece le lingue vive e vitali per definizione.

E però un conto è attendersi che i dialetti scompaiano, un conto è prendere atto di come i genitori smettano di insegnarli ai figli (giacché niente di umano scompare da sé; vi rinunciano gli uomini stessi, con scelte individuali, meditate o immediate che siano). È come se quegli stessi genitori decidessero di non trasmettere ai propri figli una parte dell’eredità tangibile – mobili, soldi, proprietà, ecc.; poiché mi pare evidente che qualsiasi lingua, per quanti discorsi verissimi e validissimi uno voglia fare sulla cultura, sulla nazionalità, ecc., è per prima cosa un lascito familiare, proveniente da quelle persone che si muovono intorno al lettino del bimbo e necessario per comunicare con loro ed essere come loro.

Certo, una lingua o un dialetto (sono la stessa cosa) è un bene condiviso con altri; per questo motivo è più facile rinunciarvi. L’abbandono di un bene comunitario non pare intaccare il patrimonio personale. Sì, è più o meno chiaro a tutti che le comunità sono fatte di individui, e che dunque, con il distaccarsi dei singoli, le comunità si sfasciano e cessano di vivere; ma la scomparsa di antiche appartenenze e di gruppi umani un tempo legati da patti sacri è vissuta come una fatalità, dolorosa ma inevitabile. Un po’ come avviene per la scomparsa dei dialetti; e su questo posso essere d’accordo.

C’è da dire però che nella realtà tangibile le comunità non esistono, o perlomeno non agiscono come tali (ogni azione collettiva è una somma vettoriale di azioni individuali più o meno simili e concordi). Per questo motivo, la sparizione di un patrimonio condiviso non impoverisce il collettivo, che non esiste e non ha motivo di lamentarsi; sono i singoli individui a soffrire di un ammanco: quello che apparteneva ai loro padri non appartiene più a loro. E quando dal passato non arrivano ricchezze né conoscenze, allora la solitudine di ogni uomo, di ogni bambino che succederà ai propri genitori, non è più la sacrosanta responsabilità individuale, non è la consapevolezza di sé e della propria unicità; è semplice disorientamento, è nausea da mal di mare su una terraferma che non si riconosce.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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