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CSABA SEGESVARI/AFP/Getty Images
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I tratti comuni (il disegno di una migrazione)

C’era, c’è tuttora, un gioco della Settimana Enigmistica dal titolo “Chi ci ricorda?”; non è uno dei più belli, in effetti, e per questo, paradossalmente, non se lo ricorda nessuno. Esso consiste in una vignettina in cui uno o più personaggi mettono in scena comportamenti o discorsi che, a loro volta, dovrebbero far tornare alla mente gli atti di un qualche personaggio famoso; uno forma dunque la propria ipotesi, poi va a pagina 46 a vedere se l’ha azzeccata.

Ora, per quanto le vignette della Settimana Enigmistica siano di norma bruttine, la situazione dei migranti che provano a entrare nella UE dai Balcani occidentali, di norma raggiungendo l’Ungheria attraverso la Serbia, è ben più tragica. Eppure, se quello spostamento di masse umane fosse raffigurabile in una vignetta - gli uomini della buona borghesia damascena, educati e dignitosi, con una figlia piccola in braccio e davanti le spalle larghe e le maniche corte di una polizia danubiana in tenuta estiva -, tale immagine potrebbe essere presentata in giro, domandando agli osservatori: “Chi ti ricorda? Cosa vedi in questo disegno?”.

Prendiamo la Serbia, il paese balcanico al centro di questa corrente. La scena che vedono i serbi è una e una soltanto, ma come la giudicano? Cosa credono che stia accadendo? Che gli ricorda? Badate che la risposta non è affatto scontata; questo fenomeno viene definito diversamente e diversamente interpretato a seconda dei punti di vista e delle opinioni dei singoli osservatori, o anche a seconda dell’aspetto che questi privilegiano e mettono in luce. La Serbia, vista la sua storia remota e più recente, avrebbe potuto vedere in una migrazione prevalentemente musulmana una (nuova) invasione islamica; e poco sarebbero valse al riguardo le confutazioni e le precisazioni anche più ragionevoli, dato che si parla di impressioni, di ricordi, di modi di leggere la realtà desunti dal proprio vissuto personale e collettivo.

Ma forse è proprio per questo, per la profondità di ciò che è personale e provato sulla propria pelle e che a volte travalica la ragione e il ragionare, che, a quanto si legge e a quanto riportano gli inviati sul posto, i serbi hanno letto finora la situazione in tutt’altro modo: hanno visto il proprio recentissimo passato nel presente di altri popoli, il proprio passato di guerra, di privazioni, di fuga verso la sicurezza e la speranza; la conseguenza, logica e insieme del tutto emotiva, è la solidarietà, la cortesia, la levità - l’umanità, in una parola - dimostrate nel trattare con i migranti. Mi è parso fra l’altro, da un paio di servizi televisivi e dal tono di un editoriale, che tutto questo abbia perfino stupito i giornalisti presenti; è vero d’altronde che i serbi, a torto o a ragione, portano ben altra nomea. E invece sono passati solo vent’anni dalla fine delle guerre jugoslave, e sedici dai bombardamenti della Nato su Serbia e Montenegro: sarebbe dunque strano se i serbi avessero dimenticato cosa significa la guerra, da cosa si scappa quando si scappa da una guerra civile, cos’è abbandonare la propria casa per sempre.

Ma l’emigrazione serba e jugoslava in generale degli anni Novanta somiglia a quella siriana, libica, yemenita di oggi anche in un altro aspetto: perché si somigliano tutte le persone che scappano (i più giovani, i più coraggiosi, quelli che possono permettersi certe somme - magari raccolte da un’intera famiglia per un solo membro…), sì, ma si somigliano anche quelle che restano: sono i disperati, gli illusi, quelli con troppo da perdere, quelli con niente da offrire. A questi rimane una terra distrutta, impoverita, vuota, e un futuro dello stesso genere; rimane, spesso, solo una guerra. E finita la guerra, se ci sono ancora, non trovano più nulla di quello per cui hanno combattuto e sofferto.

Il dramma di una migrazione ha tante scene: è il dramma di chi soffre e muore nel viaggio, di chi arriva ed è confinato in qualche limbo fisico e burocratico, è il dramma di chi non può partire, e muore e soffre nel proprio paese. Ma è anche il dramma di quegli stessi paesi che vedono sparire i propri figli migliori, morti o in fuga, e sanno che nessuna di quelle esistenze è sostituibile. Qualcuno che ricostruisce le strade e le case distrutte lo si trova sempre, dopo ogni guerra; ma le intelligenze e le storie fuggite verso altre terre e altre lingue, spesso - per ironia di una sorte non cieca - a casa di chi istiga o conduce le guerre, quelle non le restituisce nessuno, e sono mancanze che durano decenni e storpiano interi paesi (come, appunto, più d’uno degli stati sorti dalla vecchia Jugoslavia).

La nazione serba ha visto tutto questo in quelle migliaia di migranti che ne hanno attraversato il territorio, e per questo ha voluto essere solidale: per umanità e per decenza, certo, ma anche per il proprio passato così simile a quel presente altrui, e forse per curare sui corpi di estranei ferite che non hanno ancora smesso di farla sanguinare.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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