Reparto Assassini
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Reparto Assassini di Abram de Swaan

Sociologia e psicologia del genocidio, viaggio al termine della notte dell'uomo

Chi crede che il genocidio sia qualcosa di lontano -nel tempo e nello spazio- dalla società occidentale civilizzata potrebbe avere una brutta sorpresa leggendo Reparto assassini di Abram de Swaan (Einaudi, traduzione di Piero Arlorio). Prendendo in esame i più efferati stermini dalle origini ai giorni nostri, lo studioso olandese fa luce sulla psicologia degli assassini di massa e sulle condizioni che rendono possibili genocidi a carattere etnico o religioso. Ciò che emerge ci dice molto della nostra natura di uomini e del rapporto che abbiamo con la violenza, sia come vittime che come carnefici. È qualcosa che ci riguarda tutti e da vicino perché, come scrive de Swaan, «società all’apparenza pacifiche possono talvolta deviare su un percorso diverso che porta alla separazione progressiva delle persone a ogni livello, e termina con la deportazione nei ‘compartimenti assassini’ del gruppo preso di mira». E se questo non bastasse a scuotere le nostre coscienze, gioverà forse ricordare che nel secolo scorso la violenza di massa nei confronti di persone inermi ha causato un numero di vittime oscillante tra il triplo e il quadruplo di quelle della guerra (bombe atomiche comprese): almeno cento milioni di persone.

Ma come “si fa” un genocidio?
«Della massima importanza per la realizzazione di tali intenti è la costruzione, da parte del regime, di un gruppo ostile mediante la selezione di tematiche storiche disponibili in sintonia con le emozioni e le idee diffuse sulla popolazione presa di mira». Una “compartimentazione”, come la chiama de Swaan, che inizia radicalizzando una divisione in “noi” e “loro” e termina con la costruzione di una sorta di “reparto sociale” in cui la violenza di un gruppo su un altro gruppo è permessa, quando non incoraggiata o addirittura organizzata da un regime. Si comincia con una campagna d’odio (vengono i brividi a pensare alle dichiarazioni quotidiane di certi nostri politici), si finisce con una compartimentazione rigorosa «che consente alla popolazione non direttamente coinvolta di comportarsi come se niente fosse» ponendo le basi per quel distacco dal gruppo-vittima che sarà uno degli elementi fondamentali per condurre dei bravi padri di famiglia allo sterminio di massa, o nel migliore dei casi a una fredda indifferenza.  

Come hanno potuto?
Perché in fondo la domanda che tutti ci poniamo di fronte all’omicidio di massa è proprio questa: come hanno potuto? I killer sono persone ordinarie che in circostanze particolari si sono trasformati in assassini? O sono diversi “da noi” ed è la loro natura che li ha spinti a fare quello che hanno fatto? E com’è possibile che all’improvviso  un gruppo di persone che non ha mai compiuto una violenza e che mai più ne compirà si scateni contro un altro gruppo di persone per un certo lasso di tempo? Quel che è certo, è che nessun esperimento di laboratorio né alcuna ricerca storica sulla documentazione giudiziaria ha mostrato quali caratteristiche personali consentano di distinguere gli esecutori dalla gente comune. Finora.

Killer come noi
«A giudicare dalle apparenze, i killer sarebbero riusciti a superare lunghi periodi di massacro di massa senza riportarne gravi danni. Sembrerebbe che la maggior parte sia stata in grado di agire in tali circostanze senza troppi scrupoli morali, senza sentirsi responsabile personalmente e, soprattutto, senza alcuna pietà». Secondo de Swaan, già questo potrebbe essere un indizio sulle inclinazioni psicologiche degli assassini di massa, anche se non suffragata da constatazioni cliniche: «in questa prospettiva, gli esecutori rientrerebbero, a grandi linee, in un quadro clinico di scarsa mentalizzazione proprio delle prime fasi dello sviluppo della personalità» in cui una scarsa capacità empatica si coniugherebbe con una certa inclinazione alla negazione,  all’autoinganno e alla distorsione. Nel complesso tuttavia si stima che solo un 5% degli assassini di massa sia affetto da psicopatologie che rendono insensibili alle sofferenze altrui sino a infliggerle con godimento, mentre tutti gli altri non sarebbero differenti dai componenti di una qualsiasi grande società con tutte le sue sfumature.

La banalità del male
È vero allora quanto si dice della “banalità del male”? Non proprio. Fra i molti meriti del libro di de Swaan, uno dei meno trascurabili è proprio quello di mettere in discussione alcuni caposaldi della riflessione sui totalitarismi come il celebre saggio di Hannah Arendt o gli esperimenti di Milgram e Zimbardo sul potere dell’autorità. Al testo della filosofa, de Swaan rimprovera superficialità psicologica e mancanza di distacco storico, mentre pur ritenendo gli esperimenti di Milgram e di Zimbardo  “indubbiamente significativi”, lo studioso afferma che è il loro significato effettivo a restare poco chiaro. Partendo dagli stessi risultati dei promotori dell’esperimento arriva infatti a conclusioni diverse da quelle dei suoi predecessori, forse meno tranchant ma senz’altro più interessanti. «Paradossalmente, dopo aver dimostrato che l’obbedienza a un ‘rappresentante’ dell’autorità era assai più diffusa di quanto in genere si sarebbe pensato, i seguaci di Milgram giunsero alla conclusione che la psicologia della persona era irrilevante ai fini della spiegazione della sua obbedienza all’autorità» scrive lo studioso. «Si preferì ipotizzare che l’esito dipendesse esclusivamente dalla situazione. In tal modo, però, non si riesce a spiegare come mai, nel medesimo contesto di sperimentazione, una percentuale consistente di persone si comporti in maniera divergente (da 1/3 a 3/5, a seconda delle condizioni sperimentali)».

Il libero arbitrio
Alla luce delle riflessioni di de Swaan, le conclusioni dell’esperimento di  Milgam che affermano che “Se la situazione lo richiede, ognuno è un assassino”  devono quindi essere riviste. «Sostenere che è la situazione a determinare il comportamento deresponsabilizza la persona rispetto alle proprie scelte, e finisce per assolverla a priori. D’altra parte, il punto di vista opposto, secondo cui le disposizioni delle persona ne determinano totalmente le azioni, sarebbe altrettanto deresponsabilizzante». De Swaan ci ricorda insomma che rimuovere il libero arbitrio non si può, indipendentemente da quando sia difficile far quadrare l’equazione della psicologia umana. Sono proprio le nostre scelte a differenziarci gli uni dagli altri, scelte di carattere morale spesso compiute in contesti difficili, come nel mezzo di un omicidio di massa. Forse -speriamo- non sapremo mai come ci comporteremmo trovandoci dalla parte degli esecutori. Ma quello che sappiamo, oggi, è che la parte degli esecutori sarà sempre quella sbagliata. 

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Giulio Passerini