Apple, la società più antipatica del mondo (oltre che la più ricca)
Economia

Apple, la società più antipatica del mondo (oltre che la più ricca)

Ricca, creativa e antipatica: la società di Cupertino è ancora il ritratto fedele del suo padre fondatore. Soprattutto ora che si trova a difendere coi denti i propri brevetti

Si dice che le aziende siano un po’ come i cani: dopo un po’ di tempo cominciano ad assomigliare ai loro padroni. Se poi l’azienda in questione si chiama Apple, allora non ci sono dubbi: tutto sembra creato a immagine e somiglianza del suo creatore, Steve Jobs.

Anche a un anno dalla sua scomparsa la società di Cupertino ha conservato pressoché inalterato l’imprinting del suo patriarca fondatore. C’è tutto il temperamento dinamico e creativo, tanto per cominciare. Apple non segue le tendenze, le crea, si è sempre detto. È ancora così, oggi come allora. Anzi, anche di più. Basti pensare alla svolta autarchica del nuovo sistema operativo (iOS 6) con la quale la Mela toglierà di mezzo tutte le risorse provenienti da terze parti, a cominciare da Google Maps e YouTube , per sostituirle con analoghe applicazioni proprietarie.

Non è solo questione di innovazione e originalità. Apple ha fatto sua quella pragmaticità che per molti è il marchio di fabbrica del jobspensiero: ogni prodotto – anche il più semplice – ha senso solo se può garantire un eccellente margine di guadagno.

È proprio grazie a questa ricetta, nella quale convivono idee mischiate a logiche di profitto, che anche senza il suo comandante supremo Apple ha aumentato in modo vertiginoso il suo giro d’affari, divenendo l’azienda più capitalizzata del Pianeta (anche se – fanno giustamente notare quelli del Columbia Journalism Review – si tratta di un calcolo che non tiene conto dell’inflazione).

Zero compromessi

È altresì innegabile che Apple sia lo specchio fedele di Steve Jobs anche nei tratti più spigolosi del suo carattere. E in particolare nei mezzi - autoritari, se non addirittura draconiani - con i quali il genio di San Francisco coltivava le sue relazioni, dentro e fuori l'azienda.

L’arrivo di Tim Cook, lo abbiamo sottolineato in altre occasioni , ha senza dubbio smussato certe ruvidità evidenti della gestione Jobs (si pensi ad esempio al rapporto con i dipendenti, gli azionisti e i fornitori), ma Apple rimane comunque una società a cui piace dettare le regole e che non ama l’idea del compromesso. Con nessuno, tantomeno con la concorrenza.

La guerra dei brevetti , e in particolare la chiacchieratissima querelle giudiziaria con Samsung, è forse l’esempio più lampante di un certo modo di intendere i rapporti con l’esterno. Nonostante la leadership nel mercato degli smartphone, pressoché indiscussa sul mercato americano, la Mela è convinta che tutti i suoi concorrenti vogliano copiarla e che per questo debbano essere puniti.

Inutile nasconderlo, giacché la realtà è sotto gli occhi di tutti. I dispositivi della serie Galaxy di Samsung non esisterebbero se nel 2007 non fosse uscito l’iPhone, e lo stesso dicasi del Galaxy Tab, gemello coreano dell’iPad.

Ma non è questo il punto. Il punto è che dovrebbe esistere un limite all’influenza dei brevetti. Anche per una società che ha sempre brevettato di tutto, compresi le mura dei propri negozi .

Lo scotch è stato inventato dalla 3M, il Walkman della Sony, la Coca Cola dalla Coca Cola, eppure negli ultimi anni il mondo si è riempito di aziende che fabbricano nastri adesivi, lettori audio e bevande gassate al gusto di caramello. Come sottolinea il New Yorker il fatto che le idee vengano copiate non è un male, soprattutto per il consumatore.

Del resto, lo stesso Johnatan Ive, il capo del design di Apple, non ha mai fatto mistero di aver attinto per buona parte delle sue creazioni da Dieter Rrams (guardare per credere ), eppure non ci risulta che il celebre progettista della Braun abbia mai preteso un cent né tanto meno le scuse da Apple.

Apple difende i brevetti, ma la sua immagine?

Insomma. Se i giudici della corte di San José daranno ragione ad Apple, i forzieri della società si riempiranno con una vagonata di dollari (la richiesta dei legali di Cupertino è di circa 2,5 miliardi di dollari) e – cosa ancor più importante – la concorrenza (non solo Samsung ma tutta la pletora di produttori che sviluppano smartphone su base Android) sarà costretta a rivedere i propri piani di sviluppo per evitare nuove grane legali.

Ma di certo Apple non ci guadagnerà in immagine. Che vinca o che perda l’impressione è che da tutta questa faccenda Apple ne uscirà un po’ come quei secchioni che al liceo richiamano l’attenzione dei professori quando qualcuno prova a copiare dai loro fogli.

Si dirà che in un mercato globale e ipercompetitivo come quello delle nuove tecnologie è più facile che sopravvivano gli squali piuttosto che i pesci pagliaccio. Non è un caso che Google sia definita da molti il Male del Web, per buona pace di Larry Page e Sergey Brin che in tempi non sospetti coniarono il motto Don’t be evil.

Parafrasando una celebre frase del chitarrista dei Rolling Stones, Keith Richard, (il quale sosteneva che "I bravi ragazzi non fanno il rock ‘n roll"), si potrebbe quasi dire che le aziende simpatiche non fanno business, o perlomeno non fanno business di queste proporzioni.

Per tornare tornare da dove siamo partiti: cosa penserebbe Steve Jobs di questa Apple se fosse ancora in vita? Tutto il bene possibile, ne siamo certi. Ma forse non lo farebbe sapere troppo in giro. Non sia mai che qualcuno dei suoi dipendenti si monti la testa e inizi a cullarsi sugli allori.

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Roberto Catania

Faccio a pezzi il Web e le nuove tecnologie. Ma coi guanti di velluto

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