Saccomanni salvasoldi
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Saccomanni salvasoldi

Il ministro dell’Economia è l’uomo che dovrà trovare i fondi per compensare la sospensione dell’Imu e ridurre le tasse sulle imprese. Ma soprattutto ridare speranza a un Paese stremato. Ecco come farà. A partire dall’Europa

Detesta gli shock, le stangate, le «manovre correttive», insomma tutti gli esorcismi sui conti pubblici. Sarà che ne ha viste davvero troppe, sarà che conosce bene «i limiti della pressione fiscale» (è la sua tesi di laurea alla Bocconi nel 1966), maFabrizio Saccomanni, ultimo dei grand commis trasferiti dalla Banca d’Italia alla guida della politica economica, non vuole seguire le orme dei suoi specchiati predecessori. Ci riuscirà?

In agenda ci sono alcune tappe immediate: far approvare dal parlamento ilDef(documento di economia e finanza) e rivedere i dati in modo che le previsioni del governo non vengano smentite come nell’ultimo anno;finanziaresubito lasospensionedella rataImue lacassa integrazionein deroga (servono nell’insieme 3 miliardi); inserire nel primo decreto del governo misure disostegno all’occupazionegiovanile; preparare unaFinanziaria di stimolo alla crescita, grazie alla riduzione del costo del denaro (la Bce si è impegnata a dare ancora una mano) e all’aria nuova che si respira in Europa. Ma l’Italia deve essere affidabile, quindi non bisogna sforare il tetto del3 per centoal disavanzo pubblico. Meno tasse, meno spese, più sviluppo: ecco il triangolo magico, lo stesso evocato da Mario Draghi.

Giunto a 70 anni, Saccomanni si trova per la prima volta solo al comando e anche gli amici (un vero coro polifonico) si chiedono quali panni indosserà. Non possiede aziende né banche, non ha mai lavorato a Wall Street o nella City. «Fin dagli anni del liceo volevo essere un civil servant» racconta. Ha risciacquato i panni nel Potomac, ma a Washington ha trascorso 5 anni con la moglie Luciana (sposata da giovane e mai lasciata) sempre e solo al Fondo monetario internazionale. Tra i pochi svaghi che si poteva permettere c’era la musica insieme a Giuseppe Pennisi, che allora lavorava alla Banca mondiale. Melomane accanito, ama persino la dodecafonia. Il rischio, adesso, è di finire in una felliniana prova d’orchestra.

Il ministro ha davanti quel mostro chiamatodebito pubblicoe solo quest’anno deve collocare titoli per 200 miliardi di euro. La sua missione è domare la bestia e nello stesso tempo allentare le briglie. «Il debito» ha spiegato aPanorama«spesso è una necessità. In sé e per sé è una contropartita di un credito, cioè ci si indebita per trovare risorse da mettere a disposizione dell’economia. Il vero problema èrestituirloe ciò dipende dal tasso di crescita». Un guardiano del Tesoro sviluppista? «Saccomanni è un Baresi. Invece ci serve un Balotelli»: Gustavo Piga, economista e blogger irriverente, Phd alla Columbia University, paladino della crociata antiausterità, non ha peli sulla lingua. «Forse era meglio Giuliano Amato, ha più peso politico e oggi in Europa ci vuole soprattutto quello» sentenzia Gianfranco Polillo, ex sottosegretario all’economia nel governo Monti. «Potrebbe anche non fare nulla, solo il fatto di esserci genera fiducia» commenta al contrario Angelo De Mattia, che è stato portavoce del governatore Antonio Fazio.

Alla Banca d’Italia era l’ala destra della sinistra. Pragmatico senza diventare cerchiobottista, rifiuta le spiegazioni dogmatiche. Adam Posen, facendogli le congratulazioni con un tweet, rammenta che «è stato forse il primo vice al G7 a comprendere quanto era seria la crisi del 2008 e non ha appoggiato gli eccessi dell’austerità nel 2010». L’economista americano, già membro del board della Bank of England e ora direttore del Peterson Institute for international economics a Washington, è un agguerrito avversario dell’ortodossia tedesca. I suoi complimenti sono una traccia per capire cosa potrà fare Saccomanni.

L’ostacolo più arduo, denso di simbolismo politico, resta l’Imu. Il miliardo e 400 milioni per sospendere la rata di giugno lo anticipa il Tesoro, ma l’imposta sulla prima casa va abolita o addirittura restituita e ci vogliono almeno8 miliardi. La soluzione è affidarsi a una riforma che assorba tutto, anche la Tares (rifiuti e affini). È il modello tedesco dell’imposta locale sui servizi. Prenderà tempo, e per Saccomanni è un vantaggio.

Senza nuove tasse, infatti, le risorse vanno trovate nellaspesa corrente, che deve essere ridotta ogni anno di16 miliardi, 1 punto percentuale rispetto al prodotto lordo. Un sogno? Sì, in piena recessione. No, se ci dà una mano l’Unione Europea. E qui il ministro può giocare parecchi assi: il proprio prestigio (è stato uno degli architetti dell’unione monetaria), l’abilità di negoziatore e il buon carattere. Non basta a moltiplicare pani e pesci, ma «la serenità di Fabrizio ci consola» sorride Giampaolo Galli, oggi parlamentare pd dopo una lunga carriera cominciata in Banca d’Italia e culminata come direttore generale della Confindustria con Emma Marcegaglia. Se cessa la procedura d’infrazione del disavanzo, vengono scongelati 12 miliardi e i comuni virtuosi hanno già i piani nei cassetti. Poi bisogna convincere l’Eurostat a non inserire gli investimenti produttivi nel calcolo del bilancio. Il ministro Enzo Moavero giura che l’impegno c’è già. E il tutto può avvenire entro un mese.

Con nonchalance minimalista, Saccomanni ha risposto al primo assalto alla diligenza,ridimensionando le richieste sindacalisulla cassa integrazione in deroga (il segretario della Cisl Raffaele Bonanni voleva 2,5 miliardi). Lo stesso vale per gli esodati: sono 8.900 di qui al prossimo anno e bastano 440 milioni. Quanto al credito d’imposta per i nuovi assunti, potrebbe persino autofinanziarsi. Altre promesse di Enrico Letta, come l’assunzione dei precari nella pubblica amministrazione, le agevolazioni per le famiglie povere o l’edilizia scolastica, verranno coperte con la spending review (ci sono 4 miliardi entro l’anno, ultima tranche di Mario Monti), il taglio dei sussidi alle imprese (3 miliardi), la valorizzazione del patrimonio pubblico che può finalmente partire.

E l’iva? Intanto, si rinvia l’aumento dal 21 al 22 per cento che scatta a luglio. Anch’esso finirà nel gran calderone della Finanziaria dal quale possono spuntare sorprese positive, come il rifinanziamento delfondo di garanzia per le piccole e medie impresesbloccando crediti per 30 miliardi senza incidere sul capitale delle banche. O una serie di altre proposte contenute nel documento dei saggi al quale ha lavorato Salvatore Rossi, nuovo direttore generale in Banca d’Italia.

Avanti, con giudizio. Come in tutta la sua vita nella quale il gusto per la cucina da vero gourmet, i sonetti romaneschi nei quali si diletta, tra Giuseppe Gioacchino Belli e Trilussa, l’ironia e l’abilità nei calembour s’accompagnano alla ricerca continua di sfide professionali. «Saccomanni possiede un talento unico di esprimere concetti profondi con una eloquenza italiana e con un senso dello humour britannico» disse di lui Jean-Claude Trichet, presidente della Bce. Un po’ italiano, un po’ britannico. Ma anche un po’ romano e un po’ milanese, come si definisce egli stesso. Mimetico, flessibile, ma determinato ad andare fino in fondo.

Nato a Roma il 22 novembre 1942 in una famiglia di medici, Saccomanni si laurea in economia nella milanesissima Bocconi. Nel 2011, ricevendo il premio di bocconiano dell’anno, ricorda la sua esperienza, quando divideva un bugigattolo e aveva pensato di fare il regista teatrale. «Più che moltiplicare gli studenti» suggerisce «meglio aumentare gli alloggi». È a Milano che nel 1967 si apre la porta dellabanca centrale: il governatore Guido Carli e il suo vice Paolo Baffi ingaggiano giovanotti di sicuro avvenire. Nel 1970 viene inviato a Washington comeeconomista del Fondo monetario internazionale, dove rimane 5 anni. E lì incontra Lamberto Dini, che diventerà direttore esecutivo dell’Fmi. Richiamato in via Nazionale nel mezzo della crisi petrolifera, lo mandano al fronte: ilcambio della lira. E impara cosa vuol dire una moneta piccola e debole. «Dagli anni 70 in poi abbiamo svalutato tutto il possibile, poi il meccanismo s’è inceppato» ricorda conPanorama. «Quando mi sono sposato, ho preso un mutuo per la casa. L’ interesse era al 22 per cento, oggi è al 4». E può scendere ancora.

Resterà negli annali come ha preso per i fondelli l’Economist. Nel 1989 la presidenza rotante della Comunità Europea tocca all’Italia e il settimanale britannico attacca: «Sembra un bus guidato dai fratelli Marx». Saccomanni butta giù una sapida risposta firmata Groucho Marx. La settimana dopo occupa una mezza pagina.

Solo una volta è spuntato il nome di Saccomanni per unincarico ministeriale: nel 1995, proposto da Dini che guidava il primo governo tecnico e lo ha sempre portato in palmo di mano. In realtà, in Banca d’Italia «è riuscito nell’impresa non facile di essere apprezzato anche dai principali concorrenti di Dini: Tommaso Padoa Schioppa e Carlo Azeglio Ciampi» precisa chi gli stava vicino. Nel 1998 viene chiamato nel quartetto di esperti guidato dall’allora direttore generale del Tesoro, Draghi, per ottenere il lasciapassare verso la moneta unica. Da allora i loro rapporti diventano stretti. Si ritrovano a Londra, più amici che mai: Mario alla Goldman Sachs, Fabrizio alla Bers, la banca europea di ricostruzione e sviluppo che finanza i paesi ex comunisti.

Ha visto arrivare una grande crisi, nel suo libroTigri globali e domatori nazionalipubblicato nel 2002, ma non se n’è mai vantato. L’anno successivo, mentre infuria la tensione tra Antonio Fazio e Giulio Tremonti, lascia via Nazionale per Londra. Si sente a disagio, anche se testimoni dell’epoca ricordano che Fazio lo aveva promosso. Nel 2006 Draghi viene nominato governatore e lo richiama in patria come direttore generale. Sembra avviato alla successione, ma nel 2011 incappa nel veto di Tremonti che sostiene Vittorio Grilli. Fra i due litiganti prevale Ignazio Visco. Per Saccomanni è una sconfitta amara: «Ho ricevuto un’ingiustizia che non meritavo» confessa. Adesso ha la sua grande occasione.

Nel fortilizio di via Venti Settembre ha preso subito il controllo dei punti cardine, con due uomini di Ciampi:Francesco Alfonsocome capo della segreteria ePaolo De Ioannacapo di gabinetto. Entro fine mese deciderà se confermare il ragioniere generale,Mario Canzio, che ha in mano le chiavi della cassa. In Banca d’Italia è riuscito a chiudere 40 sedi senza colpo ferire. Se gli danno carta bianca, può riformare anche il ministero. Saccomanni non è un Carli, né assomiglia a Dini, a Ciampi o a Padoa Schioppa. Forse vuole prendere qualcosa da tutti, com’è nel suo stile: «Sono Fabrizio, risolvo problemi».

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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