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Economia

Renzi e il taglio delle tasse: perché dargli fiducia

La strategia del premier è giusta e ragionevole. Ma nel 2016 sarà già un’impresa non far scattare l’aumento dell’Iva

Non è che le cifre siano chiarissime e sempre concordi fra loro, comunque, all’ingrosso, Matteo Renzi ha promesso di ridurre le tasse di 50 miliardi da qui al 2018 (compresi il bonus di 80 euro e i tagli già fatti all’Irap). Il nucleo del piano sarebbe questo: nel 2016 abolizione delle imposte sulla prima casa per tutti, compreso il ceto medio; nel 2017 alleggerimento della pressione fiscale sui produttori, con tagli all’Ires e all’Irap; nel 2018 intervento sugli scaglioni Irpef, con conseguente alleggerimento delle tasse su famiglie e pensionati.

È bastato l’annuncio di un piano del genere per scatenare reazioni ostili di ogni tipo, dal "Non ce la farà mai" al "Perché anche ai ricchi?", dal "Perché privilegiare le imprese rispetto alle famiglie?" al "Dove sono le coperture?".

Personalmente penso che, ammesso che Renzi duri fino al 2018, quel che è realistico attendersi sia un percorso del genere:

1. Riduzione delle quattro sorelle (Imu, Ires, Irap, Irpef) e della Tasi per un importo pari a circa la metà di quello promesso, diciamo 25-30 miliardi;

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2. Copertura con un mix di maggiore deficit, nuove entrate, minori spese (già si sente scorrere il sangue nella sanità, con la promessa-minaccia di tagliare 2-3 miliardi all’anno).

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È, del resto, un percorso già sperimentato. Nel primo anno di Renzi le tasse sono effettivamente diminuite, specie se conteggiamo il bonus da 80 euro come una minore entrata e non come una maggiore spesa (come fa l’Istat e prescrive la contabilità europea). Ma basta un’occhiata ai dati di contabilità pubblica per rendersi conto che la maggior parte della diminuzione delle tasse è stata coperta da nuove entrate, le spese sono rimaste sostanzialmente invariate, e il percorso di riduzione del deficit pubblico è stato rallentato rispetto agli impegni programmatici dell’Italia.

Dopo un anno di cura-Renzi i conti pubblici aggregati sono gli stessi di prima, quel che è cambiato è il mix, ossia la composizione delle entrate e delle uscite del bilancio pubblico.

Detto tutto questo, tuttavia, non mi sento di unirmi al coro dei detrattori della politica fiscale di questo governo. Resto dell’idea che il bonus da 80 euro sia stata una mossa elettorale, e che molto meglio sarebbe stato intervenire subito sull’Irap o sull’Ires, ossia alleggerire la pressione fiscale sui produttori, ma penso anche che il piano annunciato da Renzi per il triennio 2016-2018 vada nella direzione giusta.

Giusta e ragionevole, a mio parere, è l’idea di azzerare del tutto le imposte sulla prima casa. Giusta perché l’imposizione attuale non è certo equa, e non si vede perché il ceto medio debba essere visto sempre e solo come mucca da mungere per dar seguito alle buone intenzioni redistributive dei governi.

Ragionevole perché l’aumento delle tasse sulla casa attuato a partire dalla fine del 2011 ha prodotto una raffica di effetti negativi, che scontiamo tuttora: una diminuzione del valore degli immobili, un ulteriore aggravio della crisi dell’edilizia, un rallentamento delle compravendite, una contrazione dei consumi, un salto nella percezione di quel che significa possedere una casa: elemento di sicurezza fino a ieri, fardello da quando i costi permanenti del possesso (tasse e manutenzione) non sono più compensati dalla costante rivalutazione degli immobili.

So bene che molti studiosi e analisti si oppongono all’idea di sopprimere la tassa sulla prima casa o perché convinti che qualsiasi intervento sulle tasse debba essere redistributivo, o perché convinti che la tassa sulla prima casa abbia scarsi effetti sulla crescita, o per entrambi i motivi.
Del resto sono stato anch’io, in passato, fra quanti sostenevano che erano altre le tasse che frenavano la crescita. Ciò non mi ha però impedito di cambiare idea quando mi sono accorto che l’evidenza empirica a sostegno della tesi dell’irrilevanza era quantomeno incompleta (perché quasi tutti gli studi considerano solo uno dei possibili effetti delle tasse sulla casa, tipicamente la variazione della propensione al consumo) e che l’entità della perdita di valore delle case in Italia è stata enorme (almeno 1000 miliardi di euro), con un effetto negativo sui consumi che si può quantificare in almeno 20 miliardi all’anno (due volte il bonus Renzi).

Ma la vera ragione per cui trovo ragionevole la strategia fiscale di Renzi è che, per me, il problema numero uno dell’Italia è e resta creare posti di lavoro, soprattutto per assorbire l’enorme esercito di riserva costituito dai giovani e dalle donne (solo per diventare come un medio Paese Ocse dovremmo crearne 6 milioni!). Da questo punto di vista privilegiare le riduzioni di Irap e Ires rispetto a quelle dell’Irpef è la cosa giusta da fare, perché i posti di lavoro veri, quelli che producono valore aggiunto senza assorbire risorse, li creano i produttori, ossia imprese, artigiani, partite Iva in genere.

A Renzi, semmai, si dovrebbe rimproverare di non averci pensato prima, e di voler attendere il 2017 per fare qualcosa. Tanto più che la decontribuzione per i nuovi assunti finirà fra pochi mesi, e nulla di analogo è previsto per il 2016. Ma, per queste lacune, temo che vi sia una spiegazione assai semplice e amara: nel 2016 sarà già un’impresa non far scattare l’aumento dell’Iva e, volendo lanciare un segnale, l’abolizione della tassa sulla prima casa è il provvedimento perfetto: rende molto in termini politici, e costa poco in termini economici.

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Luca Ricolfi