Tasse e finanza pubblica, così si uccide un’economia
Economia

Tasse e finanza pubblica, così si uccide un’economia

La vera abilità sta nel ridurre le spese

Diceva il grande Maffeo Pantaleoni: «Qualunque imbecille può inventare e imporre tasse. L’abilità consiste nel ridurre le spese, dando nondimeno servizi efficienti, corrispondenti all’importo delle tasse; fissare le tasse in modo che non ostacolino la produzione e il commercio o per lo meno che lo danneggino il meno possibile». L’espressione è forte, troppo carica di polemica personale, ma il grande maestro della scuola storica italiana di scienza delle finanze non si tirava indietro. Per chi la pensa ancora come lui, tra i quali mi metto buon ultimo, è però un giudizio che si attaglia in pieno alle politiche di finanza pubblica seguite dall’Italia nell’eurocrisi. Politiche nelle quali, a mio giudizio, una discontinuità tra il centrodestra di Silvio Berlusconi e il governo di Mario Monti nella realtà non si è vista. Monti ha garantito, rispetto al suo predecessore, un incomparabile recupero della credibilità internazionale dell’Italia nel mondo, a Francoforte e a Berlino come a Washington, Parigi e Londra. Si tratta di un patrimonio prezioso, che va difeso e confermato. Finché l’Italia resta un grande malato per il suo eccesso di debito pubblico e la sua bassa produttività, è una strada obbligata avere leader internazionalmente e unanimemente considerati seri e autorevoli.

Altra cosa è il mix di politiche di finanza pubblica. Perché è grazie a esse che perdiamo nell’eurocrisi più punti di prodotto della Spagna, che pure ha condizioni che noi non avevamo, una disoccupazione doppia della nostra e quasi un terzo di pil di bolla immobiliare rimasta in pancia alle sue banche. Le manovre triennali di finanza pubblica Monti-Tremonti danno un saldo migliorato grazie a 83 miliardi di miglior gettito attesi e a 44 miliardi di tagli dei quali la metà, 22, recuperabili localmente con addizionali d’imposta. Nessun paese tra gli euroscassati ha pensato di migliorare la sua finanza pubblica con 105 miliardi di maggiori entrate in 3 anni. Nessuno ha contemporaneamente accresciuto le imposte dirette con le addizionali locali, le indirette con iva e accise, le patrimoniali con Imu, conto titoli, sovrimposta su auto e così via.

Tutto ciò sommandosi a un sistema tributario impregnato del «favor fisci», cioè del principio per il quale lo Stato ha sempre ragione. Ho riaperto i libri di storia dell’evoluzione comparata dei sistemi fiscali e ho riletto le pagine nelle quali si descrive la condizione dei contribuenti sotto le monarchie assolute di Luigi XIV e Luigi XVI. Allora nobilità di toga, commercianti e borghesi (erano loro a pagare il più delle imposte dirette) avevano diritto a chiamare in giudizio il «fermier», l’appaltatore fiscale che equivale alla nostra Agenzia delle entrate e insieme all’Equitalia. Se la pretesa fiscale era a giudizio del contribuente errata o eccessiva, a decidere era un giudice terzo, un giudice reale che non aveva nulla a che spartire con l’esattore. E poteva condannarlo fino a un terzo dell’eccesso d’imposta richiesta. Da noi il giudice tributario appartiene invece alla stessa amministrazione fiscale e in nessun caso la pretesa eccessiva viene sanzionata. Stiamo messi peggio del suddito del monarca assoluto, ecco la triste verità. Dal 2006 al 2012, abbiamo a stento aggiunto 121 miliardi al pil nominale italiano (depurando la cifra del 17 per cento spurio inglobatovi dall’Istat per stimare il nero). Ma lo Stato si è preso per sé 141 miliardi di gettito aggiuntivo. Non ci vuole altro, credo, a capire che questo mix va cambiato. E che quella è la strada per tornare a crescere, nel rispetto e nella stima del mondo avanzato.

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