Perché serve il taglio alla spesa pubblica
PAOLO CERRONI / Imagoeconomica
Economia

Perché serve il taglio alla spesa pubblica

Il Ministro Padoan non si pronuncia su una possibile manovra correttiva. Ma secondo Prometeia il pil crescerà dello 0,3%. È stagnazione. Il governo ha scritto nei suoi documenti 0,8. Vuol dire circa 8 miliardi di euro. Intanto il debito continua a salire. E la strada è solo quella di ridurre la spesa

La congiuntura va peggio del previsto, la crescita è inferiore persino alle stime della commissione europea che erano già più basse rispetto a quelle del governo, mentre la Ue raccomanda "un rafforzamento della strategia di bilancio per il 2015". Rafforzamento sta per stretta fiscale? Pier Carlo Padoan, intervenendo alla Camera non ha abbellito la situazione, tuttavia quando gli è stato chiesto se ciò significa che ci sarà una "manovra correttiva", ha risposto "no comment". In realtà, non si vede come il ministro dell'economia riuscirà a far quadrare una equazione dalle troppe incognite; tanto più in quanto ha ribadito che il taglio fiscale di 80 euro diventerà permanente con la prossima legge di stabilità, ben sapendo che allo stato attuale i soldi per l'anno prossimo non ci sono.

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La stangata di ferragosto, dunque, s'avvicina e fioccano le più fosche previsioni. Gli analisti di Mediobanca e JP Morgan hanno calcolato che servono 10 miliardi per tener buona la Ue, in altri termini per mantenere i conti pubblici in linea con le direttive del patto di stabilità. Perché ormai è chiaro che non verrà concesso nessun margine in più rispetto alla "flessibilità già prevista" (questa la formula farisaica usata a Bruxelles). Ma 10 miliardi saranno sufficienti? La corsa al rialzo è già cominciata e c'è chi parla di 20 miliardi o ancora di più. Sarebbe un colpo durissimo dal chiaro impatto recessivo.

Lo stato dell'arte è scoraggiante. La crescita del prodotto lordo, anche sulla base del magro andamento della produzione industriale nel primo trimestre, sarà molto bassa. Secondo Prometeia non supererà lo 0,3%, cioè siamo in piena stagnazione. La Ue aveva previsto 0,6 e il governo ha scritto nei suoi documenti 0,8. Mezzo punto di pil in meno vuol dire circa 8 miliardi di euro. Intanto il debito continua a salire.

Padoan ha detto che si fermerà, ma i dati forniti a maggio sono deprimenti (20 miliardi in più con un nuovo record di 2 mila miliardi e 166 milioni di euro) e mostrano una curva in ascesa. La colpa è della recessione che ha fatto gonfiare le spese dell'amministrazione centrale per gli ammortizzatori sociali, nonostante le entrate fiscali siano aumentate di 2,2 miliardi nei primi cinque mesi dell'anno. La disoccupazione al 12,6%, dunque, non è solo un indicatore sociale pessimo, ma alimenta il disavanzo pubblico e il debito. Cosa accadrà in autunno quando verranno pagati (almeno stando agli impegni presi) altri debiti dello stato verso le imprese?

"Le stime della commissione europea non tengono conto delle minori spese pianificate e delle privatizzazioni" ha detto Padoan. Quanto ottimismo della volontà! Per le spese basti la parabola della spending review: l'accetta di Carlo Cottarelli è diventata una forbicina prima delle elezioni e adesso si trasforma in lettere agli enti locali per raccomandare (sic!) di essere più risparmiosi.

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Proprio i dati sul debito mostrano che il peggioramento non è colpa della periferia (i 20 miliardi in più vengono tutti dal centro), e sappiamo bene che fine fanno i gentili inviti del super-commissario. Quanto alle privatizzazioni (dovrebbero dare 12 miliardi, però in tre anni), intanto si è bloccata quella delle Poste, la più consistente, il resto è tutto nel libro dei sogni.

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La Ue, ha ricordato il ministro, ci invita a restare entro il 3% (nel rapporto tra disavanzo pubblico e pil) e ad alleggerire il carico fiscale spostando la tassazione sulle rendite e intensificando la lotta all'evasione. Padoan non ha confermato soltanto le promesse sull'Irpef, ma anche la riduzione dell'Irap alle imprese, sollevando ancor più perplessità sulle risorse necessarie.

Non basta. Se si tiene conto di questi tre obiettivi, si vede che l'idea di compensare le riduzioni delle imposte dirette con un aumento di quelle indirette o delle patrimonialine, contraddice con la raccomandazione principale della Commissione: diminuire la pressione contributiva per lasciare spazio ai consumi e agli investimenti, cioè alla domanda aggregata che alimenta la crescita. Dunque, non si può fare nessun gioco delle tre carte. La via maestra resta tagliare la spesa e questo, come si è visto, sembra uno scoglio insormontabile.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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