Perché le privatizzazioni non sono decollate?
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Economia

Perché le privatizzazioni non sono decollate?

A parte Alitalia, nelle casse dello Stato non è ancora entrato un euro delle cessioni previste lo scorso anno

Non abbiamo messo da parte i ricavi da privatizzazioni» spiega un salomonico Giovanni Tria il 16 luglio 2019 davanti alle silenziose commissioni Bilancio di Camera e Senato. «Stiamo studiando dove intervenire, nella misura dovuta e con un calcolo anche finanziario che sia virtuoso e non semplicemente finalizzato a fare cassa», aggiunge. Ed è questo il momento in cui il silenzio si fa brusio.

Panorama, sistemato davanti ai parlamentari, coglie sui volti il sarcasmo di deputati e senatori. Quel giorno, infatti, il ministro dell’Economia è rimasto per l’ennesima volta vago su uno dei capisaldi della manovra finanziaria gialloverde. Eppure fin dal novembre 2018, per assicurare un’accelerazione della riduzione del rapporto tra debito e Pil, Tria aveva annunciato - agli italiani e all’Unione europea - un piano di privatizzazioni da 18 miliardi di euro nel 2019. Al momento non ve n’è quasi traccia, anzi.

Per dire, il caso Alitalia va esattamente nella direzione opposta, con Luigi Di Maio che ha appena riaffermato la gestione pubblica della compagnia di bandiera in crisi. La soluzione del ministro dello Sviluppo assegna infatti al ministero dell’Economia il controllo di maggioranza, insieme ai soci minoritari Atlantia e Delta, lasciando in carico ai creditori e ai contribuenti (cioè a tutti noi) oltre 3 miliardi di debiti. Ecco, per intenderci, in Europa solo la portoghese Tap è stata rinazionalizzata. Risultato: nel 2018 è tornata in perdita.

Né va meglio agli altri vettori nazionalizzati, tipo South African Airways o Malaysia Airlines, costretti a continue ricapitalizzazioni. Insomma, se i modelli sono questi, tutto lascia prevedere che la nuova Alitalia possa in futuro nuovamente avere i conti in rosso. E sarebbero sempre gli italiani a dover ripianare i debiti con le loro tasse. Ma fa nulla: nella visione del capo politico dei Cinque stelle occorre garantire la strategicità dei trasporti verso l’Italia in chiave turistica. Tuttavia va registrato che, almeno su questo, gialli (M5S) e verdi (Lega) sembrano andare d’amore e d’accordo. Claudio Borghi, vicinissimo a Matteo Salvini, è un convinto sostenitore della nazionalizzazione. E non solo di Alitalia.

«Non credo che lo Stato ci abbia guadagnato molto dalla privatizzazione di Autostrade o Eni» è l’opinione del presidente della commissione Bilancio alla Camera dei deputati «anzi ha perso soldi e profitti». Se è così, ed è così, non c’è da meravigliarsi se latita la dismissione delle partecipate di Stato. È inspiegabile, invece, il silenzio assordante delle opposizioni sul tema. O forse è spiegabile con un peccato originale, ovvero le discutibili privatizzazioni prodotte dai governi di centrosinistra, che spesso hanno svenduto aziende strategiche dello Stato. Inoltre Nicola Zingaretti, nuovo segretario del Pd notoriamente formatosi nella sinistra storica poco propensa alle privatizzazioni, è davvero poco sensibile all’argomento: non ne parla mai e con lui l’intero partito. L’esatto contrario di quanto fa un liberale come il responsabile economico di Forza Italia, Renato Brunetta.

Brunetta premette che sul capitolo privatizzazioni Tria fa capire «che il Tesoro sta solo studiando la strategia giusta per non rendere l’operazione solo un modo per fare cassa» mentre «le privatizzazioni hanno evidentemente solo quello scopo. Quale altro motivo dovrebbe infatti avere il ministero per liberarsi dei remunerativi gioielli di famiglia?». Un altro vulnus riguarda la tempistica. «Ormai l’obiettivo di raccogliere i 18 miliardi di euro promessi nel Documento di economia e finanza entro la fine dell’anno è del tutto saltato per mancanza di tempo» denuncia Brunetta «a oggi il Tesoro non si è ancora degnato di scrivere in dettaglio cosa intende collocare sul mercato e per quanto». Secondo Brunetta, continuando così «corriamo davvero il rischio di un’altra procedura d’infrazione sul debito».

Al momento, secondo i calcoli Unimpresa, la manovra 2020 dovrebbe arrivare a 65 miliardi. Una stangata che spiega anche le fibrillazioni della maggioranza gialloverde, poco propensa a accollarsi un peso così grande. Se dovesse sopravvivere agli scontri feroci tra Salvini e Di Maio, il premier Giuseppe Conte pensa ovviamente di contrattare la Finanziaria con la nuova Commissione europea guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen. Ma sa bene che la trattativa sarà tutt’altro che facile e quindi deve dare qualcosa in pasto ai falchi di Bruxelles.

Intanto Tria ha offerto parole rassicuranti («Non basta avere un po’ più di deficit per mettere in moto una fase espansiva se non c’è sostenibilità della manovra») ma sta anche lavorando a qualche fatto concreto. Per esempio, dal Tesoro è partito il piano per la dismissione di 420 immobili pubblici per un valore di circa 1,2 miliardi di euro. L’elenco spazia dagli edifici residenziali a quelli di origine direzionale o industriale, per arrivare ai locali commerciali attraverso i vecchi palazzi nobiliari, le ex caserme, carceri o conventi e i terreni. Alcuni sono molto noti come il Convento di Venezia o l’ex stabilimento di esplosivi a Villa Camerata di Firenze. Tuttavia per arrivare a 18 miliardi di euro ce ne vuole, eccome se ce ne vuole.

Uno modo per trovarli e metterli nel bilancio della manovra 2019 ci sarebbe pure e lo segnala proprio Tria, e cioè attraverso «una riduzione della spesa corrente» che comprende «un perimetro molto vasto». Parliamo, insomma, dell’agognata spending review che il Paese attende da decenni. Anche perché proseguendo così, sempre secondo Unimpresa, la spesa pubblica sfonderà il muro dei 900 miliardi di euro nel 2022. Peccato però che lo stesso ministro escluda tagli a sanità, istruzione e spese sociali e non indichi dove intenda intervenire. Così è difficile persino immaginare dove potrebbe abbattersi la sua scure. Se mai si abbatterà…

E quindi non resterebbe che mettere sul mercato le partecipazioni pubbliche di maggior valore, a partire dal 23,6 per cento di Enel, il vero pezzo pregiato perché da solo vale oltre 12,5 miliardi di euro. Il resto del pacchetto di partecipazioni dello Stato in società quotate in Borsa ne vale appena 11. Ci sono il 68 per cento di Mps, che vale meno di un miliardo, il 53 di Enav (1,39 miliardi), il 29,2 di Poste (3,3 miliardi), il 4,3 di Eni (2,47 miliardi), il 30 per cento di Leonardo (1,8 miliardi). E anche se per la dismissione reale occorrerebbero realisticamente almeno un paio d’anni, la cassa prodotta da queste azioni si trasformerebbe automaticamente in ossigeno per la casse pubbliche.

Ma contro l’ipotesi di vendita lavorano sia Di Maio sia Borghi. Ed ecco perché, alla fine della fiera le privatizzazioni potrebbero risolversi con un semplice stratagemma: la cessione delle partecipazioni alla Cassa depositi e prestiti, che non è inclusa nel perimetro dei conti pubblici ma di cui il ministero dell’Economia possiede quasi l’83 per cento. Tale partita di giro consentirebbe al governo di fare cassa senza troppi problemi. Un’ipotesi o una soluzione? Si accettano scommesse.

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Carlo Puca